In quest’ultimo periodo, sto affrontando letture davvero impegnative, sia per quanto riguarda lo stile e il linguaggio, decisamente altolocati e sofisticati, una formalità non adatta, quindi, a una lettura sbrigativa e frettolosa, implicando un’attenzione molto più scrupolosa del solito per non rischiare di perdersi in un bicchiere di parole, sia per quanto concerne le tematiche affrontate, forti e profonde, quasi attuali, se ci si sofferma qualche ulteriore minuto nel rifletterci con concentrazione, e, proprio per questo motivo, coinvolgenti in maniera spropositata, oltre qualsiasi aspettativa di partenza. Per il Domino Letterario di aprile, ho scelto Lo Stradivari perduto di John Meade Falkner, una ghost-story ambientata in epoca vittoriana che mi ha conquistata fin dalle prime righe lette e lasciata devastata a lettura ultimata, con il cuore e le mente scossi e straziati per le emozioni provate.
Tuttavia, mi addentrerò nella trama del romanzo solo dopo avervi dato l’elenco dei blog che prenderanno parte a questo gioco mensile. Passate anche da loro a dare una piccola occhiata alle tessere di cui si occuperanno: non ve ne pentirete!

Sophia Maltravers ha un compito importante da adempiere, ora che Sir Edward, suo nipote, è diventato maggiorenne: come predisposto dal fratello di lei, sarà proprio la donna a raccontare la storia degli ultimi anni di vita di John, il padre dell’ormai diciottenne, un uomo distrutto nell’anima e nel corpo a cui era legata moltissimo, non solo per via del sangue che li univa e quindi l’amore caratterizzante una parentela così stretta, ma anche perché aveva sposato la sua migliore amica, Constance Temple, una giovane ragazza, dolce e bella, ma con un destino tanto avverso quanto orribile.
John Maltravers nacque nel 1820 a Worth e, dato che, intorno al 1839, fu interessato da una salute molto cagionevole, proprio per evitare stress o peggioramenti del suo stato fisico, invece di mandarlo all’università di Oxford all’età di diciannove anni, dopo aver studiato a Eton, Mr. Thoresby, il tutore dei due fratelli da quando i loro genitori morirono, lo iscrisse al Magdalen Hall, persuaso dallo stesso preside dell’appena citato istituto, il professor Sarsdell, che avrebbe tenuto molto a cuore il ragazzo, offrendogli il migliore alloggio, tranquillo e perfetto per uno come John. Negli anni in cui l’erede di Worth Maltravers rimase all’università, fece la conoscenza di Mr. William Gaskell, uno studente del New College, con il quale condivise, fin dal principio della loro amicizia, il profondo amore per la musica: erano soliti incontrarsi alla sera e suonare nelle confortevoli stanze di John, quest’ultimo il violino, un Pressenda prestigioso regalatogli dal suo tutore, e l’altro il pianoforte, sempre un dono per il protagonista da parte di Mr. Thoresby.

La vita scorse tranquilla nel quel del Magdalen Hall, fino a quando una sera l’amico, tornato da poco dal suo viaggio con lo zio, in occasione della Pasqua, con direzione Roma, portò degli spartiti a John, spiegandogli, terribilmente eccitato, quanto la musica italiana lo avesse colpito, deliziando il suo uditorio di una sola persona con un resoconto dettagliato delle avventure nella caput mundi e del periodo trascorso là, e fosse intenzionato a suonare alcuni pezzi scelti con lui. Il piano e il violino, il violino e il piano, insieme, come sempre.
Poteva forse sapere, William, che questo sarebbe stato l’inizio della rovina di Maltrevers? Poteva anche solo pensare che una suite di Graziani, l’unica tra quelle portate da Mr. Gaskell a cui l’artista aveva dato un nome, Areopagita, avrebbe distrutto e avvizzito un giovane uomo a tal punto? Eppure, quella stessa sera, non appena l’amico se ne ritornò nel suo alloggio, John suonò il suddetto componimento, arrivando al penultimo brano, la gagliarda, con uno strano presentimento, come se nella stanza dove si trovava in solitaria, si fosse appena accomodato qualcuno sulla poltrona di vimini lì vicino, poiché lo scricchiolare del materiale, rimbombante nel silenzio della stanza, identificava proprio il movimento del sedersi. Voltatosi per appurare che effettivamente non c’era nessuno come pubblico al suo piccolo assolo, si diede dello sciocco, leggermente divertito e scocciato della pausa fatta e non voluta. Riprese, così, a suonare, fino alla fine, terminando l’Areopagita con il minuetto di epilogo, ma, nell’atto di chiudere lo spartito, si accorse di un secondo cigolio, sempre proveniente dalla poltrona di vimini, come se, questa volta, qualcuno si fosse alzato, andandosene e lasciando vuota la seduta. Sicuramente era una reazione del materiale ad alcune tonalità indotte dalle corde del violino, come spesso capitava nelle chiese, quando alcune parti delle finestre istoriate “rispondevano” vibrando al suono dell’organo. Di certo era così… Vero?

Il caso non sempre ci è amico.
Con la sua capacità di manipolare la nostra vita a piacimento, è noto come esso a volte ci arrida, permettendoci di collezionare vittorie quotidiane e relativi premi testimoni della buona riuscita di battaglie più grandi di noi, ambiti trofei meritati per l’impegno fatto scendere sul campo e riposti con tanta cura quanta delicatezza sullo scaffale della nostra esistenza, eventi questi che ci consentono, quindi, di raggiungere il traguardo dove certo la gioia è di casa e la speranza nell’avvenire, sempre più forte e rigogliosa ora dopo ora, una fiamma animata anche grazie a tali guadagni fruttuosi, non ci abbandona mai, ma altrettante volte, come se il destino volesse mantenerci con i piedi ben saldi a terra, imponendo una sorta di freno alla nostra allegria e a quella serenità guadagnata con fatica, e ci volesse ricordare che non è tutto oro ciò che luccica, al pari di un boia perfettamente ligio al suo lavoro, cali sopra la nostra testa una lama affilatissima, presentandoci un conto salato che rappresenta tutte le conseguenze delle nostre scelte, quelle operate per arrivare al punto in cui ora siamo, le famose decisioni prese tra una rosa di alternative che, forse, proprio adesso andremmo a rivalutare per evitare il confine ultimo a cui siamo giunti, un limite che non si può che varcare e oltrepassare, non voltandosi indietro, ottimistica aspettativa impossibile da concretizzare davvero, ma procedendo in avanti, sempre, sperando in meglio, auspicandosi di non peggiorare la situazione, pregando per una qualche risoluzione, anche semplicemente imbastita ma realizzabile, continuando a confidare come si è sempre fatto, fino al momento in cui, dopo ogni passo compiuto, dopo tutte quelle falcate che ci hanno fatto avvicinare al nostro personale abisso e, frattanto, alla parvenza della liberazione tanto agognata dal giogo oscuro di cui ormai siamo protagonisti nostro malgrado, il fuoco della fiducia si affievolisce, di attimo in attimo, acutamente dolorosi, di istante in istante, fortemente agonizzanti, arrivando a spegnersi del tutto, abbandonandoci a un destino infausto, lasciandoci unicamente delle ceneri di cui non sappiamo che fare, versando fiumi di lacrime e disperandoci, ancora e ancora, sino a quando avremo fiato in corpo e lo spirito che ci contraddistingue si vorrà ribellare di nuovo del pozzo in cui è caduto, sino a quando rimarremo vivi e potremo continuare a combattere, sino a quando il nostro corpo non avvizzirà come la nostra anima ha già provveduto a fare, precedendolo.
Col senno di poi, è semplice comprendere l’ora e il luogo a livello dei quali abbiamo sbagliato una volta per sempre. Prima di allora, però, capire è impossibile perché prevedere lo è altrettanto. E così, ci facciamo trasportare dalle onde della nostra curiosità e dai marosi della passione che ci accende nel profondo, lasciandoci avvincere da una marea limpida e innocente, un flusso che travolge e avvolge sempre più, inabissandoci attraverso i suoi vortici imprigionanti, mulinelli che, seppur da una parte rispondano infine ai quesiti che ci avevano accompagnato da ormai molto tempo, aumentano esponenzialmente il nostro interesse, acuendo il bisogno impellente di sapere, capire, conoscere tutti i risvolti della trama che, come una macchia d’olio, sta allagando la nostra attenzione, invischiandoci nelle sue sabbie mobili e inducendoci a concentrarsi unicamente su essa, facendo sfociare l’ingenua inclinazione in una mania ossessiva, chiodo fisso sul quale continuiamo a battere, battere e battere, non fermandoci se siamo sfiancati dall’esercizio, ma seguitando nell’azione, protraendo all’infinito lo sfinimento costante, continuo, incessante.

Comincia così un cammino frenetico con il solo obiettivo di ricercare la verità alla base di tutto e sanare, di conseguenza, una brama che, al pari di un buco nero, ci attira con una forza gravitazionale senza eguali, rendendoci inermi e inerti di fronte all’evidenza dei fatti, abbandonandoci soli a competere, svantaggiati, con una malattia ben radicata in noi, un male prima mentale, insediatosi fin dalle radici del nostro senno, conquistandolo e avvelenandolo con le sue spire squilibrate, e poi fisico, come se la nostra forma esteriore non volesse essere da meno, andando quindi a rappresentare a pieno lo stato d’animo interiore che in quel preciso momento ci sta abbracciando in una morsa mortale, una stretta che non lascia spazio a dubbi, che non permette alcun fraintendimento, che non consente di prendere dei respiri ristoratori e rinvigorenti, un morbo che, partendo dalla terra fertile rappresentata dalla nostra voglia iniziale, inevitabilmente ha contagiato tutto ciò che incontrava, mettendo a ferro e fuoco quel bacillo accogliente di vita, radendo al suolo qualsiasi forma sana di esistenza, lasciando dietro di sé il nulla e il dolore, unicamente loro.
Questo non è altro che l’inizio del declino, l’incipit di una discesa in picchiata verso l’oblio, un pozzo senza fondo che ci accoglie a braccia aperte e dentro il quale sprofondiamo, sprofondiamo e sprofondiamo, risucchiati senza alcuna speranza di salvezza, divorati pian piano, dentro e fuori, logorati dalla situazione venutasi a creare per causa nostra, così dilaniati da risultare moribondi di fronte al deterioramento sempre più penetrante verso cui la sequenza di vicende vissute ha portato la nostra persona.

Chiaro è che un profondo cambiamento si affaccia al nostro uscio. Estraniarsi da tutto e tutti, modificando enormemente il solito atteggiamento di sempre nei confronti del mondo e del prossimo, pare essere l’unica maniera per concentrarsi davvero sul nostro obiettivo, quell’ossessione spasmodica che continua imperterrita ad apparire, sottoforma di ologramma funesto e portatore di massime sventure, nei nostri sogni, o meglio, in quegli incubi che sembrano così reali da voler a tutti i costi non riviverli così spesso, riscontrando a poco a poco che pure la nostra esistenza è permeata dalla sua ombra, un’oscura presenza-assenza che non tarda a manifestarsi in tutta la sua bestiale forma, infestando e lordando ciò che di buono avevamo e abbiamo avuto, trasmettendo il malessere derivante da essa anche a chi ci sta intorno, magari contagiandolo, forse straziandolo o peggio finendolo amaramente. Tuttavia, l’alienazione forzata potrebbe essere il modo più semplice e diretto per evitare che l’epidemia si diffonda, rappresentando, perciò, il solo metodo per porre in quarantena coloro che amiamo e che ci sono rimasti accanto, anche se è certo che non meritiamo per nulla il loro affetto: essa sancirebbe non solo un ritorno alle origini e la rinascita del nostro vecchio io, ma anche l’esordio, chissà, della remissione dei nostri peccati, iniziando quindi a fare ammenda su quanto è accaduto, su tutto quello che noi, seppur involontariamente, abbiamo contribuito a far succedere, sulle conseguenze di cui comunque siamo responsabili, senza sconti di pena, gettando le basi per il ritorno sui nostri passi, camminando a ritroso e cercando di ricostruire, pezzo dopo pezzo, ciò che avevamo distrutto, dilaniato e lacerato. Ciononostante, il vaso di Pandora è stato scoperchiato e molto probabilmente non faremo in tempo a riaprirlo per farne uscire Elpis: dopotutto, è troppo tardi per qualsiasi cosa, persino per la speranza.

Lo Stradivari perduto è una storia dove l’inquietudine fa da padrona, un’angoscia che trascina il lettore in un’atmosfera decisamente surreale e magica, sfociante a tratti nell’agghiacciante a causa della resa quasi reale e vera da parte di John Meade Falkner, un autore in grado di farsi portavoce di una narrazione struggente oltre ogni dire, estremizzata fin ai massimi livelli grazie alle emozioni trapelanti dalle parole altolocate usate che, incalzanti e coinvolgenti, straziano il lettore, ferendolo man mano che ci si addentra nel romanzo, dopo ogni periodo letto, ogni pagina voltata e ogni capitolo concluso. La drammaticità di questo piccolo libro, ricco di un forte mistero sgorgato dall’apprensione, dall’inconoscibile e dall’irrazionale, riesce a spezzare l’animo anche di chi non è avvezzo a lasciarsi intenerire o dilaniare dai sentimenti scaturiti durante una lettura: questa malinconia sicuramente ci dimostra quanto la vita sia breve e debba essere vissuta con giudizio, quanto sia facile smarrire la strada maestra e andare dove non si dovrebbe, quanto sia semplice non ritrovare più qualcuno nel marasma delle vie e nel caos dell’universo, quanto sia elementare perdere noi stessi e mai rincontrarsi di nuovo.

 

 

Valutazione:

 

Scheda libro

Titolo: Lo Stradivari perduto
Autore: John Meade Falkner
Casa editrice: Neri Pozza
Pagine: 153
Anno di pubblicazione: 2016
Traduttore: Valentina Poggi
Genere: Giallo, Thriller, Horror
Costo versione cartacea: 14.50 euro
Costo versione ebook: 8.99 euro
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