Esternando la seguente confessione, sicuramente non farò una gran figura come blogger seria e intenditrice dello scibile letterario, ma non è un problema impossibile da arginare in quanto rimediare non è mai stato così a portata di mano: infatti, oltre a essere la mia prima volta quale partecipante attiva di un Review Party, grandissima opportunità datami da Vanessa e dalla Leone Editore a cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti, oggi viene sancito il mio battesimo del fuoco con Matteo Bruno e la sua straordinaria capacità di narrare una storia attraverso cui trasporta con facilità e destrezza il lettore in un crescendo di lacerante desiderio di conoscenza, una smania che trova pace totale e apice svettante solo con l’ultimazione della lettura, pagine e pagine di esistenza vera, storia scritta e forza erculea, viaggio d’inchiostro impregnante di antiche realtà magiche in cui lasciarsi cullare, nonostante gli evidenti sballottamenti da sopportare e vivere in compagnia di un protagonista degno di imperitura memoria.

Questa è la storia di un mercenario, di un re e di una donna baciata dagli dei. È una vicenda di onore e di coraggio, di valore e di senso del dovere, ma anche di nefandezze, di turpi inganni e vili tradimenti. È la storia di un anello magico, di un popolo cocciuto ancorato a tradizioni ossidate dalla patina del tempo e di una conquista implacabile sospinta dall’avanzare della modernità.
È la mia storia.

Le poche righe dell’incipit che inaugura L’ultimo spartano bastano a gettare l’esca verso la curiosità dei lettori affinché abbocchino subitaneamente, desiderosi di abbuffarsi al pari di ingordi al banchetto per loro preparato.
Attraverso la narrazione in prima persona, iniziamo subito a vestire i panni di Filocrate, un uomo ormai adulto che inizia a rivivere la sua giovinezza, quegli attimi più importanti sancenti i tempi esistenziali che allora rappresentavano i suoi presente e futuro, epoche adesso passate che, racchiuse nel suo cuore, protegge alla stregua di reliquie in teche preziose.
Era un giovane mercenario di ventidue anni quando si ritrovò agli ordini di Megabizio, il suo diretto ufficiale con il quale aveva già combattuto anni prima a Cheronea contro i macedoni e, conseguentemente, aveva instaurato una sorta di rapporto in grado di essere considerato, alla lontana, quasi un’amicizia, l’unica che Filocrate, esule della sua città Megalopoli, avesse mai avuto.
Un destino accomunava coloro che si trovavano nei pressi del fiume Granico. Mancava davvero poco all’attacco di Alessandro, figlio e discendente di Filippo, quel re che causò la cacciata definitiva del nostro protagonista dalla sua patria poiché quest’ultimo si era arruolato per fermarne l’avanzata, passi decisivi che furono il preludio del successo del dominatore proveniente dal settentrione. Non c’era da stupirsi, quindi, se il suo erede non volesse essere da meno: era ormai un mese che accompagnava la sua enorme armata, conducendola alla sua testa verso l’entroterra asiatico. Il Barbuto, soprannome spregiativo dato al re persiano Dario, aveva mobilitato in risposta le sue truppe, ingaggiando anche mercenari provenienti da ogni dove, pur di bloccare risolutamente quel sovrano nel fiore degli anni.
Pronti o meno, Filocrate e i suoi alleati d’armi dovevano, di conseguenza, prepararsi anima e corpo a ciò che li stava attendendo. Certo non si sarebbero mai aspettati di avere una qualsiasi possibilità di vittoria, eppure, grazie non solo alla stanchezza dei nemici dovuta all’infaticabile e continua camminata per giungere in quei luoghi ma anche alla smania di Alessandro di colpire subito gli avversari, ferendoli in modo irreparabile, i nostri eroi erano riusciti a farcela, bloccando provvisoriamente l’avanzare dei macedoni. D’obbligo in quegli istanti era, perciò, festeggiare l’istante fortuito ricevuto per grazia divina. Ed era proprio questo che il protagonista de L’ultimo spartano si accingeva a fare, se solo Megabizio non lo avesse chiamato per condurlo da Mnemone in persona, il loro comandante che aveva richiesto al suo sottoposto di portargli al cospetto il suo uomo migliore.
Ignaro del suo destino, il ragazzo seguì quel vecchio compagno di avventure, onorato di essere stato scelto, in fibrillazione di conoscere ciò che l’avrebbe atteso.
Cosa? Per scoprirlo, basta leggere il libro e accompagnare Filocrate ovunque il fato abbia deciso di guidarlo.

Solo raggiunta una determinata età, fase di un’esistenza vissuta in maniera piena e senza rimpianti, periodo entro il quale tutti i nodi ormai sono venuti al pettine, non scampando quindi alla loro sorte proverbialmente segnata, ci ritroviamo a riflettere sul percorso che abbiamo intrapreso per poter arrivare dove adesso siamo, non solo pensando ad ogni passo compiuto e agli ostacoli in cui inevitabile è stato per noi inciampare, scomodi incontri che, nonostante la violenza inaudita con la quale vi siamo incappati, siamo stati in grado di superare, perpetrando l’incedere di una vita lungo la strada a noi assegnata, ma anche ponderando in merito alle conseguenze dovute alle azioni di cui abbiamo interpretato i portatori sani, impronte indelebili che segnano, sotto forma di cicatrici vistose e mai rimarginate, sia noi stessi, sia coloro che ci hanno incontrato per loro e nostra (s)fortuna, i famosi episodi che, nella loro totalità, hanno saputo riempire i nostri giorni accompagnandoci verso quel domani misterioso ed enigmatico ora divenuto presente certo e tangibile, un dono sempreverde del tempo di ieri, di oggi e di domani, l’unico regalo per antonomasia che l’individuo in generale brama più di ogni altro.

Perciò, i ricordi di un’intera epoca ci invadono la mente, riportando a galla le gioie e i dolori custoditi gelosamente nel cuore, gli albori di un’esistenza così lontana da non sembrare neanche la nostra, miraggio distante e spettro di un’era finita che torna nelle sue grandezza e realtà quasi volesse ostinatamente rimembrarci chi eravamo, un noi diverso che a volte vorremmo saper dimenticare a causa delle esperienze negative di cui è stato il diretto interessato, abilità però negataci che ci incita a rivangare e osservare nell’oblio dei nostri pensieri immagini sbiadite dalle quali dipendono le nostre attuali messe a fuoco, fondamenta solide necessarie affinché si possano porre delle robuste basi per future fotografie, nuove testimonianze di noi e del nostro mondo come lo conosceremo un giorno, qualora ne avessimo la possibilità.

E ci rivediamo catapultati nel pregresso in quella nostra versione depositaria di vetuste peculiarità, con una particolare evidenza nei confronti dei difetti e dei vizi che hanno caratterizzato la nostra epoca andata, aspetti che, qualora adesso venissero ispezionati in tutte le loro accezioni più intime, si manifesterebbero nella loro autentica natura, una verità negativa esibita ai nostri occhi divenuti ormai saggi pozzi di conoscenza, un’attendibile esemplificazione con retrogusto amaro dimostrante gli importanti effetti che, col tempo, sono apparsi prepotentemente alla maniera di un usuraio pronto a riscuotere quanto gli è dovuto: la dolcezza viene, quindi, bandita e lascia lo spazio circostante al fiele, smanioso di nuove conquiste e desideroso di altrettanti vittorie.

Di sicuro al primo posto risalta la solitudine, uno stato mentale al quale eravamo avvezzi e quasi rassegnati, una certa abitualità nata dal radicato senso di non appartenenza a niente e nessuno, una presenza forte dovuta all’assenza imperante, consuetudine in grado di tenere a bada, con la sua energia intrinseca, ogni emozione riguardante noi e gli altri insieme, un intero sempre e comunque diviso dalla testardaggine di uno stile di vita all’apparenza calzante con noi eppure completamente sbagliato per la nostra indole personale.

Tuttavia, il fato, l’unica entità che crea e distrugge, accompagna e abbandona, indirizza e allontana, una forza invisibile che riesce a sbaragliare i desideri e le propensioni di ogni individuo esistente plasmandoli a suo piacimento senza seguire apparentemente alcuna regola fissa, ci porta a comprendere quanto sia significativo appoggiarsi a una famiglia vigorosa e presente, un sicuro scoglio che, con la sola apparizione nel momento più opportuno, volentieri aiuta chi si trova in difficoltà durante una burrascosa tempesta indomabile, un’ancora di salvezza per coloro che tendono ad abbandonarsi a sé stessi e chiudersi in un luogo senza ritorno dove l’oblio più tetro e risucchiante aspetta e spera in una loro resa incondizionata. L’isolamento viene, di conseguenza, sconfitto, aggiungendo di contro anche la ritrovata fiducia nel prossimo, una scoperta sconvolgente che ci ha indirizzato verso lidi inesplorati ai quali credevamo di non poter sbarcare, né per volontà propria né per imposizioni esterne, uno scambio equo di lealtà tra uni e altri che ha permesso anche di sottolineare quanto, alcune volte, la prospettiva da cui guardiamo nasconda altro, misteri enigmatici che, come un banco fitto di nebbia, non palesano il marcio celato nei meandri della finta facciata, essere indefinito e unito che perde quale strascico la dualità dalla quale è sorto trionfante.

Quel senso di indipendenza dovuto alla mancanza di dogmi ferrei da seguire quali comandamenti per abbracciare il mondo nella migliore maniera possibile, una pochezza che ci consegnava, senza alcun merito, il diritto di esentarci ogni qual volta ne sentivamo il bisogno, soprattutto in quegli istanti in cui il nostro senso di sopravvivenza ci imponeva l’arbitrio di fuggire voltando le spalle e rinnegando il nostro essere, ha visto il suo declino scemando pian piano, con perenne costanza, reazione ovvia derivante dal ritrovato schema di comandi esistenziali, leggi da rispettare anche nel caso in cui esse vadano a cozzare con i desideri e le paure presenti nel nostro bagaglio emotivo, a volte una zavorra che vorremmo perdere sul nastro trasportatore, spesso un aiuto coscienzioso per determinare l’intimo significato delle circostanze. Si aggrega a tutto ciò la gagliardia di combattere e potercela fare, anche se le ovvietà indicano il contrario, imponendoci di non abbassare il capo di fronte all’evidenza del lapalissiano, facendo emergere un orgoglio e una caparbietà sopra le righe, virtù che mai abbiamo posseduto ma che ora sembra personificare la seconda pelle ottenuta con la muta serpentina, pregi che vediamo riflessi anche negli specchi nostri pari, uomini valorosi e senza macchia, donne speciali e degne di questo nome.

La conversione della nostra persona a questi privilegi porta, però, anche verso altre condotte che non appaiono positive quanto le loro suddette sorelle, tanto simili quanto diverse: sorgono dalle acque antiche invidie e gelosie, erba gramigna che attecchisce e rende il terreno fertile foriero di ulteriore zizzania, inducendo a pensare alla bramosia come motivazione per la quale risulta giusto desiderare e pretendere ciò che esula dal nostro io, portandoci anche a covare profondo desiderio di vendetta nei confronti di chi ha avuto l’ardire di imporci la sua ingombrante presenza orientandoci attacchi di ogni sorta, come se noi fossimo il bersaglio e loro gli arcieri incoccanti le frecce.

La giustizia, dopotutto, instrada verso nefandezze necessarie per mantenere una sorta di ordine cosmico universale, dimostrando che la totalità non è assuefatta interamente dalla correttezza di carattere, sottolineando perciò quanto il vento possa convincere in maniera facile a incanalare dove più gli aggrada tutti coloro che vogliono soddisfare appetiti insaziabili e famelici. In fin dei conti, essere buoni d’animo non è una prerogativa di tutti e le mele marce possono imboscarsi ovunque, anche e soprattutto nei posti più impensati e meno propensi all’accoglienza di simili elementi. Per coglierli in flagrante, è sufficiente un unico attimo di sbadataggine, infinitesima distrazione che il fato persuade a compiere, attraverso il suo zampino felino, per condurci, mano nella mano, alla volta di mete non agognate, remote prime scelte verso cui optare senza voce in capitolo né alternativa alcuna, uscita d’emergenza da varcare qualora sentissimo sopraggiungere quel panico che da tempo albergava latente in noi, ma che solo ora ha deciso di concretizzarsi di fronte alle eventualità, cercando in ogni modo una salvezza, boccata d’aria, in extremis o meno, che l’apnea prolungata di un’esistenza intera ha conseguentemente suscitato: sebbene, si dica, i fautori del nostro destino possiamo essere soltanto noi, in maniera inconsapevole, seguiamo docili le briciole di pane disseminate dalla sorte, diventando giocatori della sua partita a scacchi, pedine che si attengono alle strategie vagliate per loro con l’alto obiettivo di conquistare a mani basse e, infine, vincere o, quantomeno, cercare di farlo, donando il tutto per tutto.

È così che, fin dall’inizio, nella nostra vita sono apparse, quasi selvaticamente, avventure in grado di movimentare giorni e notti comprese, vicende che hanno dato il via a una crescita interiore e a inedite prese di posizione, alti e bassi che testimoniano la mera fattezza dell’esistenza quale ottovolante impazzito e incontrollabile capace di elevarci verso la beatitudine più assoluta e, il secondo dopo, toglierci la terra sotto i piedi, scalate e franate al suolo che dimostrano la totale aleatorietà, pure di quegli aspetti creduti intoccabili, entità che, da una parte, angolazione definita, denotano libertà, corsa imperitura verso l’orizzonte e oltre, ma, dall’altro lato, cambiando prospettiva, richiamano solo e soltanto un claustrofobico senso di prigionia, gabbia che, seppur luccicante e accogliente, rimane pur sempre tale.

Il dubbio è uno solo, a questo punto: arrenderci all’evidenza e quindi gettare la spugna oppure intestardirci continuando imperterriti per la strada che desideriamo percorrere? Non esiste una risposta davvero giusta a questa domanda, ma l’unica certezza è che da un qualsiasi avvenimento, seppur riprovevole, può nascere sempre qualcosa di buono.

L’ultimo spartano è un viaggio tortuoso dove eventi e personaggi sono così ben interconnessi e incastrati alla perfezione da formare, alla conclusione della storia, un puzzle le cui tessere trovano, con lo scorrere delle pagine, la sola posizione confacente loro. Il primo aspetto che emerge leggendo la nuova fatica letteraria di Matteo Bruno è il potere descrittivo proprio dell’autore: i paesaggi risultano essere talmente vividi che irreparabilmente il lettore vi si trova catapultato senza mezzi termini, ritrovandosi in un mondo parallelo nel quale riesce ad estraniarsi e a perdere l’orientamento, una bussola che impazzisce anche di fronte all’esposizione minuziosa dei sentimenti, emozioni che dilaniano non solo chi le vive direttamente ma anche gli individui esterni, intaccati in modo definitivo dalla loro eco assordante e scalpitante. L’accuratezza affiora, più in generale, nella narrazione stessa, una strategia in grado di catturare come una calamita l’attenzione grazie alla modalità con la quale viene inculcata, altro complimento da esprimere nei confronti dello scrittore, e agli intrighi sapientemente illustrati, mostra imposta al suo pubblico affinché vengano risolti, macchinazioni che ben si sposano con i meri avvenimenti dell’antichità, realtà e fantasia che si intersecano in un connubio coi fiocchi.
In ultimo, ma non meno rilevante, è il linguaggio che Matteo Bruno ha adottato dall’inizio alla fine della storia di Filocrate, un registro glottologico declinato coerentemente con l’insieme, un’ulteriore spinta verso il mercenario protagonista e quel percorso di esistenza che l’ha contrassegnato per l’eternità, un tragitto erto e lungo, tortuoso negli ostacoli da circumnavigare, necessario per giungere pronto al domani.

 

 

Valutazione:

 

Scheda libro

Titolo: L’ultimo spartano
Autore: Matteo Bruno
Casa editrice: Leone Editore
Pagine: 354
Anno di pubblicazione: 2017
Genere: Storico
Costo versione cartacea: 13.90 euro
Costo versione ebook:
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