È sempre vero che l’inizio di un nuovo anno porta con sé inedite abitudini a cui si sente il profondo desiderio di attenersi? Se da un lato, ogni volta, si cerca di incoraggiare la propria creatività per dare una svolta alla routine giornaliera, dall’altra parte, come nel caso della rubrica Tris di Consigli, il ritorno alle origini risalta nel silenzio quale forte richiamo di un’epoca d’oro. Perciò, oggi torna l’appuntamento mensile che piacevolmente condivido con Susy de I miei magici mondi e Mara di Romance e altri rimedi, il nostro personale ritrovo nella blogosfera dove insieme elargiamo suggerimenti letterari per cui vi invito a prestare molta attenzione.

L’argomento della puntata odierna verte su tre libri che abbiamo ricevuto in dono da parenti e amici in occasione del Natale, praticamente i regali più apprezzati da ogni amante della lettura che si rispetti, graditi presenti trovati all’ombra di un albero che, scartati in un passato di già bei ricordi, saprà allietare a dovere il futuro dei nostri prossimi giorni.

Sapete ormai come sono fatta: o compro un’intera serie a scatola chiusa, preservando intatta la mia sanità mentale già precaria, o non posso in assoluto iniziare a leggerla per timore di incontrare, dietro un qualsiasi angolo di carta stampata, quella conclusione aperta capace di rendere agonizzante il suo pubblico poiché la smania di sapere tutti i dettagli malauguratamente viene incitata a scalpitare, distruggendo così dall’interno un povero cuore fragile e bisognoso di pace interiore. Chiaro, ciò non mi rende immune dal prendere mostruosi granchi, in particolar modo se mi attengo ai pareri discordanti indirizzati ai volumi della duologia di S. Jae-Jones, ma confido nel mio istinto che sembra non fare ancora cilecca, per il momento: in fin dei conti, sono e sempre sarò una donna fedele, dall’inizio alla fine.

 

Dopo la sola lettura de Le nostre anime di notte, un piccolo romanzo che ha saputo incantarmi per qualche sera d’Agosto nel lontano 2017, ho capito che io e Kent Haruf saremmo stati legati per l’eternità da un filo invisibile, quella stessa connessione speciale che l’assiduo sostenitore percepisce verso il suo idolo da poster sul muro, un rapporto immaginario che, sentita in lontananza l’eco delle strade tutte uguali di una cittadina inventata del Colorado, come fiamma mi attrae a sé in quanto falena, un richiamo ancestrale che non posso fare a meno di ascoltare nemmeno se nella mia libreria La Trilogia di Holt ancora aspetta un mio cenno di lettrice: verrà il momento anche per lei, ne sono certa.

 

Sapete perché adoro le ricorrenze in cui le persone si aspettano un Babbo a cui a volte manco credono per ottenere bottini cospicui di leccornie non sempre culinarie? Il motivo è semplicissimo: posso sentirmi meno in colpa per il possesso della licenza di uccidere il mio patrimonio destinato (quasi) completamente ad autoregali librosi. Una bambina da non frequentare di Irmgard Keun è uno dei sopra menzionati pensierini che mi sono concessa nel 2018, un’attrazione fatale per cui devo ringraziare sia, in primis, la copertina dall’eleganza e dalla semplicità evidenti, sia, poi, il titolo stravagante in combo alla sinossi sui generis, minuzie essenziali affinché la totale attenzione del divoratore seriale di pagine medio venga calamitata senza sconti.