Avete idea di quanto tempo sia passato dall’ultima volta che ho pubblicato sul blog? A guardare lo storico degli articoli qui presenti è una domanda di facile risoluzione, ma ve lo posso giurare, ogni amante della lettura che si rispetti, subisce un colpo al cuore nel rendersene davvero conto assieme a me, soprattutto se nei suoi hobby figura pure la scrittura.
Sono stata decisamente pessima nei confronti della rubrica Storytelling Chronicles, l’angolino privato che ho voluto mettere a disposizione di alcune colleghe ora amiche per ottenere lo sprone sufficiente e necessario affinché la nostra ars scribendi non morisse di stenti, perché, a conti fatti, oltre ad aver tolto questa grande opportunità a chi magari dipendeva da essa per produrre qualcosa, ho obbligato me stessa ad abbandonare prematuramente la nave nero inchiostrata in favore del nulla, adducendo gli imprevisti della vita quali soli responsabili di una pigrizia che sa, spesso e volentieri, di eternità.
L’importante, però, è uscire dal profondo baratro in cui siamo caduti per ergerci su migliori altitudini, giusto? Quindi eccomi qui, con una storia di media lunghezza che non solo si adatta a pennello alla tematica di ottobre, Ultimare e pubblicare un racconto iniziato ere geologiche fa e mai terminato, ma anche sono felice di aver concluso poiché, all’epoca, avevo iniziato a scriverla per dedicarla a Susy -ovviamente ciò non significa che deve farsela piacere per forza eh, liberissima del contrario!-. Dopotutto, sebbene abbia inserito un trope che lei purtroppo odia -quando mi venne l’idea di metterla su carta, ero fissata con le dinamiche narrative: Single Dad, Age Gap e, qualora esistesse, Multiethnic couple-, due elementi fondamentali del sottostante torrente di parole sono i suoi preferiti: sapreste indovinare quali? Se la conoscete un minimo, azzeccherete la risposta adessubito!

Creazione a cura di Federica, admin del blog On Rainy Days

 

«Ebonyyyyyyyyyy!»
Un laccio emostatico dai capelli indomabili mi ferma la circolazione all’altezza delle ginocchia. Sorrido a trentadue denti, mentre la colonna sonora della mia vita, la fotocopiatrice in funzione, mi bistratta le meningi come ogni mattina.
Aspetto questo intermezzo di baci e abbracci da circa una decina di giorni, quando il capo ha annunciato, inaspettatamente rispetto i suoi canoni stacanovisti, che si sarebbe preso una vacanza per passare del tempo con la sua famiglia. Considerando le mie tasche sul bucato e vuoto andante, fare una settimana bianca a Cervinia, in Italia, è un sogno che forse solo in un universo parallelo potrebbe mai avverarsi per una come me, col conto quasi in rosso dopo aver provveduto all’affitto e poco altro. Odio avere l’acqua alla gola, ma per fortuna so nuotare, e anche bene. Con i braccioli.
«Qualcuno qui è davvero felice di essere tornata a casa?» domando con voce decisamente sorpresa, sbirciando di sottecchi l’adorabile rampicante che pare non voler mollare la presa sulle mie gambe. Mi formicolano le mani dalla voglia che ho di prenderla in braccio e spupazzarla da oggi fino a data da destinarsi, ma cerco di contenermi. Oltre alla poca dignità rimastami quando si tratta di bambini in generale, devo ricordarmi che lei, in particolare su tutti, purtroppo non è mia figlia.
Avverto la stretta intensificarsi, prima di vedere, con la coda dell’occhio, il visetto di Judi far capolino dall’ammasso di ricci scuri. Appoggia il piccolo mento vicino alla mia rotula e inclina la testa, la meraviglia nello sguardo cioccolato fondente.
Ridendo del mio stupore, a questo punto infondato, annuisce con vigore, prima di corroborare ulteriormente la sua tesi: «Sono troppo contenta, Ebony! Mi sei mancata tantissimissimo!»
Il mio cuore troppo sensibile, con la complicità del ciclo mestruale ormai alle porte, spinge gli occhi a inumidirsi dall’emozione. Se rifletto su quanto ha vissuto, fin dalla nascita, la meravigliosa creaturina di fianco a me, sento la necessità di liberare la mia leonessa interiore. Quanto vorrei sbranare una certa persona!

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Artista: nicnicnic78

Mi abbasso, districando i tentacoli al profumo di gelsomino dalle mie articolazioni, e, prendendo le sue piccole mani con le mie, sussurro: «Tesoro, mi sei mancata tantissimissimo anche tu.»
La fisso quanto basta per non sembrare una pazza e la attiro a me, cingendola forte. La tengo in concomitanza del mio cuore, nell’unico luogo dove rimarrà anche quando sarà ormai cresciuta e non avrà più alcun bisogno di me.
Percepisco le dita del mio angioletto artigliarmi la camicetta, ricambiando, a modo suo, la morsa della sottoscritta con uno slancio totalmente inaspettato. Distinguo un pacato tirare su col naso e, quindi, capisco che è il momento di darci un taglio: non importa se piango io, sono adulta ed espellere lacrime a volte aiuta, ma Judi deve sempre e solo sorridere. In fin dei conti, un bambino non può fare altrimenti.
«Che ne dici se adesso ci prendiamo un dolcetto e ci raccontiamo a vicenda cosa è successo nel periodo in cui siamo state lontane?»
Mormoro nei suoi capelli, inspirando a tratti la sua fragranza per calmare la mia astinenza prolungata. Forse i miei neuroni di ventitreenne sono davvero partiti per la tangente, ma non mi importa, anche se so di dover mettere in pace il cuore su una determinata questione che non voglio sbrogliare adesso.
«Come fa zia Jenna con la sua migliore amica Heidi quando lei non fa la civetta con papà?»
Il suo bisbiglio in tono innocente infilza il mio petto come un coltello ben affilato. Deglutisco cercando di non farmi sentire affatto, sarebbe alquanto imbarazzante in caso contrario.
Mi allontano per guardarla negli occhi, mentre tengo a freno la mia curiosità.
Mi sforzo di sorriderle, mentre la gelosia mi divora, dentro e fuori, fuori e dentro.
Prendo un bel respiro, mentre la calma cerca di guadagnare terreno in barba all’isteria.
Ridacchio come meglio posso e confermo a metà la sua teoria: «Esattamente così, Judi, ma senza l’ultima parte.»
La bambina sgrana gli occhi per la mia affermazione. Sono confusa, soprattutto quando vedo il suo labbro inferiore tremare un poco, quasi stesse per scoppiare a piangere.
«Ah sì…?»
Anche questo sussurro misto a domanda riesce a dilaniarmi l’anima, ma in modo diverso dal precedente. Non ne comprendo a pieno la natura, eppure decido di fuggire dai quesiti a riguardo e inclino la testa.

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Artista: Monoar_CGI_Artist

«Beh certo, Judi, noi siamo migliori amiche e lo saremo per sempre», rispondo onde evitare di sbagliare in qualche modo e farla stare male qualsiasi possa esserne la ragione.
Continua a guardarmi, mi trafigge con lo sguardo da parte a parte. Sembra non avermi sentita, pare non essersi accorta che le ho appena parlato. Aggrotto le sopracciglia e prendo in mano la situazione.
«Allora, quel dolcetto… Ti va?»
Sbatte le palpebre più volte, destandosi, tutt’a un tratto, dal mondo parallelo in cui si era ritirata per la manciata di minuti precedenti. Stira le labbra quanto può e, per ristabilire il clima spensierato di prima, tenta di replicare al mio entusiasmo velato con un sorriso.
So che ce la sta mettendo tutta, mi mostra addirittura la dentatura bianchissima che ha in dotazione per via della genetica perfetta, ma non riesce a convincermi. Conosco questa bambolina da quando era in fasce, a me non la fa, però io non posso intromettermi e superare il limite, non con lei. Ripeto, devo mettere il cuore in pace, è giunto il momento di farlo sul serio.

 

Fisso lo schermo nero del computer una volta in più e mi chiedo cosa sia successo.
Se ripercorro i fatti di metà mattina, non scovo alcunché di strano. Io e Judi siamo venute alla mia scrivania per la famosa chiacchierata da donne adulte. Si è appollaiata sulla sedia girevole prendendo forse troppa velocità per i miei gusti mentre roteava su sé stessa, ma io non ho fiatato, per la medesima ragione di sempre, e ho scelto di dirigermi nella sala ristoro: avevo visto dei donuts con glassa rosa e zuccherini bianchi e ho pensato subito al fatto che erano i preferiti della mia piccolina. Tuttavia, quando sono tornata alla postazione di lavoro per dividere lo squisito bottino come promesso, era scomparsa.
Sospiro, se ripenso al panico che ha conquistato terreno nel mio animo solo poche ore fa.
Avrei voluto attivarmi per cercarla, nell’azienda dove mi trovo, per la ragnatela di strade che si dipanano a venti piani sotto di me, nel continente prima e nel mondo intero poi. Avrei voluto chiamare tutte le forze dell’ordine che mi venivano in mente di contattare pur di stringerla di nuovo tra le braccia, al sicuro da tutto, al sicuro da tutti, al sicuro per me. Avrei voluto, ma non l’ho fatto.
Mi prendo la testa fra le mani ed elucubro su questa mia idiozia che non sono ancora in grado di estirpare.
Anche se mi piace pensarlo perché l’ho cresciuta io, non sono sua madre.
Anche se mi piace sperarlo perché ho una cotta per suo padre, non lo diventerò mai.

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Artista: LUNEMax

Dopotutto, sono solo una ragazzina. Non ho la maturità necessaria per prendermi cura di un altro essere umano perché a malapena riesco a farlo di me stessa, tra la casa e le bollette. Non ho la maturità sufficiente per provarci con Jackson perché a malapena sono degna di essere la sua segreteria, tra una figura barbina alla mattina e un balbettio sciocco al pomeriggio.
Eppure, nonostante stia cercando in ogni modo di metterci una pietra sopra, continuo a preoccuparmi, continuo a emozionarmi, continuo a fagocitare una speranza che dovevo sradicare quando mi sono accorta fosse in procinto di nascere, esattamente cinque anni fa, quando ho iniziato lo stage alla Sanders Enterprise e ho incontrato il CEO, un trentatreenne non solo avvenente e sexy ma anche gentile e premuroso, un uomo con un sorriso bellissimo e una neonata altrettanto bellissima a cui badare perché l’ex compagna non commentabile gliel’ha mollata appena dopo il parto, come se fosse una bomba inesplosa o una malattia contagiosa.
Quindi sì, ho fatto finta di niente, ho dovuto farlo. Rispondendo alle varie e-mail, passando le telefonate al mio superiore, scambiando qualche parola con gli appuntamenti della sua giornata e organizzando le nuove riunioni con la mia solita precisione, l’ho fatto, senza pensare, in modo meccanico, perché, se mi fossi fermata anche solo un secondo a riflettere, ne avrei risentito, tanto, troppo, infinitamente.
Sospiro di nuovo e scuoto il capo. Mi tiro indietro con la sedia, prendo la borsetta in grembo e mi alzo. Non voglio, ma devo: mi dirigo verso l’ufficio di Jackson per congedarmi. È la prima volta che non vedo l’ora di essere a casa in vista di un weekend all’insegna della solitudine, dei carboidrati e dei romance a lieto fine. Forse dovrei iniziare a cercarmi un ragazzo vero, in carne e ossa, invece di fantasticare sull’averne uno che, tra l’altro, non sarà mai alla mia portata.
Sbuffando, l’ennesimo respiro profondo fuoriesce dalle mie labbra e, a un soffio da esse, mi ritrovo davanti alla porta incriminata.
Sto per bussare, ma fermo a mezz’aria la mano prima di farlo, dopotutto l’unico ostacolo tra me e Mr. Sanders è già aperto di uno spiraglio.

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È da lì che lo intravedo, magnifico come sempre, eppure non posso fare a meno di aggrottare le sopracciglia perché noto che qualcosa, ne sono sicura, non va. È stravaccato sulla poltrona e stritola un bicchiere di cristallo pregiato mezzo vuoto. La bottiglia da cui si rifornisce contiene solo due dita di quello che sembra essere bourbon invecchiato di non so quanti anni. Fissa il vuoto davanti a sé, o forse la cornice che ha sulla scrivania e di cui non ho ancora potuto osservare il contenuto essendo stata posta lì da, presumo, oggi, visto che fino ad ora non c’era mai stata.
Tuttavia, sgrano di colpo gli occhi quando Jackson decide di tracannare il poco liquido rimasto che stava facendo roteare con fare meditabondo: vederlo in modo così discinto è davvero nuovo per me, abituata come sono a osservarne i tratti adorni di cura e attenzione millimetriche.
A conti fatti, ho davvero l’imbarazzo della scelta per meravigliarmi. La giacca del completo gessato blu scuro è sul divano a isola, dal modo in cui giace scomposta sicuramente vi è stata lanciata sopra con poca grazia. Il panciotto della medesima tonalità è ancora al suo posto, ma risulta slacciato e, per questo, lascia intravedere molta più camicia del normale. Per concludere, l’aria scomposta dell’insieme è accentuata dalla cravatta azzurro chiaro che, lenta nel classico nodo di solito stretto, è pronta per essere definitivamente tolta.
Sbatto gli occhi per svegliarmi dalla trance in cui mi sono persa fino a un attimo fa e deglutisco. Non ho idea di cosa sia successo, sembra così abbattuto, soprattutto da quando ha abbassato il capo verso il torace e ha sospirato pesantemente, ma devo uscire subito dal mio nascondiglio, allo scoperto, per non rischiare di fare notte qui, impalata, benché starei a fissare volentieri uno che non avrebbe problemi a concorrere con i Bronzi di Riace versione nero pece.
Quindi apro del tutto la porta e rivelo la mia presenza, due piccoli passi nella sua direzione: «Mr. Sanders?»
All’udire il mio richiamo pacato, Jackson alza la testa di scatto e mi fissa, due orbite vuote che paiono radiografare un fantasma e non la storica segretaria completamente sfatta da un’intera giornata passata al suo servizio: in fin dei conti il trucco sbavato, gli occhi azzurri stanchi, la pelle smorta da vampira e i capelli biondi non più lucenti parlano per me.
Sono un po’ disorientata, mentre il tempo sembra fermarsi tutt’a un tratto. Vorrei chiedergli qualche informazione per sanare il mio essere curiosa dalla radice dei capelli alla punta dei piedi, e magari dare una mano al meglio delle mie capacità per risolvere la situazione, ma, non so perché, lo percepisco dentro, non credo sia il caso.
Un silenzio pesante accompagna queste mie riflessioni e, visto che il padre di Judi non dà alcun segno di avermi compresa sebbene continui a scrutarmi in maniera insistente, prendo di nuovo la parola con maggior decisione: «Mr. Sanders, è tardi. Io andrei, se non le serve altro ovviamente.»
«Perché non me l’hai detto?»
Il suo tono baritonale mi prende un poco alla sprovvista, non posso negarlo, ma, ci metto la mano sul fuoco, è la domanda che mi ha posto a sorprendermi davvero. Inclino la testa e faccio mente locale, spostando gli occhi, un po’ qui un po’ lì, e sfiorando le labbra con le dita: cosa ho dimenticato di dirgli? Non ne ho idea, tant’è vero che decido di informarmi sulla questione: «Come prego?»
«Perché non mi hai detto che ti sposi, Ebony?»
La risposta arriva più veloce di quanto pensassi, ma la mia reazione stenta a salire in superficie. Ho solo qualche secondo per sgranare gli occhi e aprire leggermente la bocca, prima che il mio interlocutore lanci sul mobile di fronte a sé una scatolina squadrata e riprenda la parola quasi ringhiando: «L’ha trovato Judi.»

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Osservo attentamente quell’oggetto, assomiglia tantissimo a ciò che custodisco nel terzo cassetto della mia scrivania, eppure in questo momento il mio cervello si rifiuta di collaborare sul serio, accendendo i pochi neuroni funzionanti a sua disposizione: l’analogia è solo nella mia testa, vero?
«Riesci a immaginare, Ebony?», si alza mentre comincia a sguinzagliare una mitragliata di domande, partorite, forse, grazie al coraggio alcolico di cui ha fatto rifornimento nel tardo pomeriggio. «Riesci a immaginare cosa significa per un padre vedere sua figlia in lacrime che urla e scalcia perché sua madre si sta per sposare con qualcun altro e lui non può fare niente per evitare l’inevitabile?»
Aggrotto la fronte al quesito, distolgo lo sguardo dal cofanetto blu scuro e principio a scrutarlo, proprio quando Jackson inizia ad avvicinarsi a me, lentamente, con una luce così diversa negli occhi che sono incapace di decifrare. Sta aggirando il pezzo di antiquariato in legno massello che ogni giorno lo incornicia nel suo ufficio, un cubicolo di proporzioni ciclopiche che affaccia direttamente su Central Park, un cliché assai sfruttato nei miei romanzi preferiti ora che ci penso.
«Riesci a immaginarlo, Ebony?»
Lo ripete, fermandosi davanti a me, al centro della stanza, quasi volesse mantenere una distanza di sicurezza per chissà quale ragione che non comprendo ancora.
Ci scambiamo una lunga occhiata, carica di suspense, perché da me sta aspettando una certa logicità nel replicare, benché non abbia ancora afferrato il senso del discorso a cui abbiamo dato il la. Tuttavia, non ci do troppo peso e procedo, accontentandolo: «Miss Stevens sta per convolare a nozze?»
«Che cazzo c’entra ora Serena?»
So che è paradossale, ma posso giurarlo, lo bisbiglia con veemenza, sorpreso dalla mia esternazione senz’ombra di dubbio.
«Beh, ha citato la madre di Judi…», affermo, perplessa, perché mi sfugge dove voglia andare a parare e non so davvero ciò che vuole sentirsi dire.
«Oh piccola, sei così intelligente e sveglia, ma ancora non ci arrivi?»
Fa qualche passo verso di me, portandomi a indietreggiare e coreografare, assieme a lui, una danza dal sapore, in via del tutto straordinaria, sensuale. La porta magicamente si chiude dietro di noi, credo sia stato il marcantonio innanzi a me a fare una mossa fulminea per serrare l’uscio, anche se non ne sono sicura, e ci finisco appoggiata, in gabbia fra le braccia tese di Jackson. Alzo gli occhi ed esito: domandargli se sia una candid camera sarebbe troppo fuori contesto in un istante simile?
«Avevo pensato di dirtelo appena tornato, Jenna concordava con me e Judi, beh… È da quando sa parlare che mi chiede cosa aspetto a sposare la sua mamma.»
Sussurra e si avvicina. Cosa ha detto?
«Sono davvero un coglione, perché avrei dovuto farmi avanti prima con te, senza tergiversare, senza temere un rifiuto, senza pensare alle ipotetiche conseguenze sul lavoro…»
No, non può essere. Giusto?
«Mr. Sanders…»

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Artista: the1willy

Cerco di dire qualcosa, ma lui è come un treno sferragliante, ha preso velocità e non dà alcun segno di volersi fermare a una delle tante stazioni di passaggio: «Eppure, porca puttana, non ho riflettuto bene! Non mi è mai venuto in mente potessi essere fidanzata, figurarsi in procinto di dire sì a qualcuno che non sono io!»
Apro la bocca per riprovare a partecipare al dialogo trasformato ormai in soliloquio, però fallisco miseramente, di nuovo.
«Sei la perfezione fatta a persona, bellissima fuori e magnifica dentro, avrei dovuto prevederlo, avrei dovuto…»
«Jackson!», lo esclamo e, per fortuna, decide di darci un taglio. Mi guarda, abbastanza confuso, con quelle labbra socchiuse su cui ho assai fantasticato durante il giorno e, soprattutto, nelle mie notti solitarie con i sogni proibiti come uniche panacee alla mia singletudine. «Quell’anello non è mio», sussurro, ma, dall’espressione in mutamento del mio capo, comprendo di essere stata abbastanza chiara. «Il compagno di mio fratello, Josh, me l’ha affidato affinché Tim non avesse la possibilità di trovarlo nel loro appartamento», aggiungo, mentre la tormenta nei suoi occhi si cheta per diventare il cielo più limpido mai visto. «Capisce subito quando una persona gli sta nascondendo qualcosa, ha fiuto per certe cose», concludo, anche se non è necessario, anche se non gli interessa affatto, anche se anche se anche se. Perché già mi sta baciando e io sto perdendo il lume della ragione, con addosso le sue mani, curiose ma risolute, per la prima volta.
Ciononostante, lo tsunami emotivo in cui adesso sono immersa con tutte le scarpe, non è sufficiente a sedare il chiodo fisso della mia giornata, un pensiero martellante riguardo la versione femminile e in miniatura dell’uomo innanzi a me, che sembra aggrappato al mio corpo quasi avesse paura di vedermi sfuggire, evaporando come un miraggio appena il viandante si rende conto del granchio preso nei meandri del deserto.
Perciò comincio il discorso: «Aspetta, Jackson…», e lo allontano quanto basta, due centimetri di spazio tra i nostri toraci ansanti, per riuscire a formulare la domanda delle domande, la sola davvero rilevante per me, per lui, per noi: «D-dov’è Judi?»
Mr. Sanders mi sorride dolcemente, stacca le mani dalla porta e le usa per accarezzarmi le guance incorniciandomi il viso: «È a casa, al sicuro.» Prosegue in quel movimento ritmico a cui già non posso fare a meno, appoggiando la propria fronte sulla mia, senza abbandonare il contatto occhi negli occhi con la sottoscritta, e dice: «Ora mi prenderò cura di te, ma dopo te lo prometto, andiamo da lei e ci staremo per sempre.»

Fonte: Pixabay
Artista: ligielis

Non perde un secondo da quando ha taciuto e mette in atto il suo piano: riprende a baciarmi, aumentando la posta in gioco, e io sono definitivamente perduta.

 

Sollevo lo sguardo e lo vedo. Mi domando da quanto tempo stia appoggiato allo stipite della porta a fissarci, ma non glielo chiedo. Gli sorrido soltanto, mentre mi osserva sereno, mentre si avvicina giocoso, mentre mi bacia e mi accarezza assieme alla figlia che dorme tra le mie braccia. Perché, appena tornati a casa, mi sono stretta a lei e non l’ho più lasciata.
Abbiamo pianto, quando ho cominciato a spiegarle il malinteso.
Abbiamo riso, quando ci siamo rese conto che forse non dovevamo singhiozzare, proprio per niente.
Abbiamo mangiato schifezze, perché è così che si fa in questi casi, e pure in altri.
Abbiamo guardato Frozen, perché lo adora e io adoro tutto quello che lei dice di apprezzare.
«Sai che puoi anche lasciarla e metterla a letto, vero? Ci siete sedute sopra, dopotutto, e credo sia anche più comodo, per entrambe.»
È un bisbiglio, ma io lo zittisco comunque con lo sguardo: non posso rischiare che la svegli.
«Perché dovrei lasciare la mia bambina ora che l’ho trovata?»
Jackson scuote leggermente la testa, gli angoli della bocca che si incurvano verso l’alto con dolcezza. Mi bacia la fronte, potrei abituarmici, e mi sussurra: «Ho capito, vado a prendere i pigiami e torno.»
Gli faccio l’occhiolino corredato di linguaccia e, mentre si allontana da me uscendo di scena, ci rifletto. Se presto non lo fa lui, sarò io a propormi, sebbene abbia già intrapreso la “buona strada” mettendo sulla scrivania in ufficio una mia foto con Judi e invitandomi a stare a casa loro quando più mi aggrada.
Però, datemi retta: non importa come si svolgerà la matassa della nostra vita, questa volta non sarà affatto un equivoco.

Fonte: Pixabay
Artista: michasekdzi

 

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Questo racconto è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice o, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale.