Proprio quando il 2018 stava salutando per l’ultima volta la comunità mondiale tramite l’abituale rito di passaggio contemplante una dipartita di tutto rispetto che sempre gli consacriamo con amore e speranza quale ringraziamento per il passato in chiusura, gioie e dolori che hanno saputo temprarci nelle profondità del nostro animo, e verso il futuro in apertura, gamma di colori dalle vivaci tonalità a cui guardiamo, ingenui eppure coraggiosi, con somma fiducia, elucubrando sui buoni propositi da farsi di consuetudine per il nuovo anno, l’unico mio pensiero che, in quello specifico frangente, riusciva a sommergere la matassa delle riflessioni alberganti la mia mente in costante attività, era dedicato completamente a La Nicchia Letteraria, quel nascondiglio personale che tre anni fa all’incirca io e Jackdaw abbiamo deciso di inaugurare insieme, quasi alla stregua di due partner in crime, Banda Bassotti double version che, ancora oggi, sulle montagne russe della blogosfera, riesce a ritagliarsi una minuscola fetta di etere, spazio limitato da cui, però, attraverso un percorso ciclico, continuano a estendersi ramificazioni su ramificazioni in grado non solo di conquistare ulteriori visitatori prendendoli all’amo con esche dalle pagine inchiostrate, ma anche di frequentare e apprezzare lontane colleghe dalla professionalità innata che sapranno gradire la vostra presenza, ricordandovi, dopo, più di chiunque altro e come nessuno, prima, ha mai fatto.
Per questa ragione, il primo traguardo balenatomi fra una sinapsi e l’altra è stato rappresentato dall’esatta aspirazione a coinvolgere il mio rifugio libroso in progetti capaci di unire diversi cuori per uno scopo comune, mete dall’eccezionale fattura generate con il preciso obiettivo di scuotere la routine affinché possa acquisire sagome inedite da esibire come richiesto dal dress code in atto, cambio guardaroba necessario se si vuole catturare l’attenzione con discreta avidità: L’Angolo Vintage 2.0, idea concepita da Chiara de La lettrice sulle nuvole, coincide, difatti, con il prologo di un’era ancora non sfogliata in cui ogni mese, assieme ad altre volenterose amministratrici di lit-blog, la sottoscritta affronterà uno dei numerosi arretrati comprati, dimenticanze di uno scaffale che si ammantano di polvere come il peggiore dei ninnoli ricevuti, in pratica una scialuppa di salvataggio qualora rammentiate del mio essere accumulatrice forte di acquisti datati.
Ringraziando, quindi, l’ideatrice della rubrica per avermi accolta tra le fila delle aderenti all’iniziativa, il presente pomeriggio vi racconto, grazie al mio ormai ben colladauto Thr33 Words, de Il Castello Rackrent scritto da Maria Edgeworth e pubblicato da Fazi Editore, esiguo tesoro dalla caduca ampiezza che mi sono aggiudicata subito all’epoca della sua uscita, nel forse rimpianto e, per certo, distante 2017.

Magari, qualcuno di voi, al pari, d’altronde, della qui presente dalla mente talvolta, lo ammetto, troppo quadrata per spaziare oltre il suo giardino ben amministrato e curato fin nelle minuscole caratteristiche di gran pregio, percepisce un’indubbia titubanza dinanzi alla possibilità di affrontare ex novo un viaggio di pagine e china dal modesto volume, ristretta numerabilità di capitoli che nella maggior parte delle circostanze, purtroppo, si rivela così succinta e laconica da imporre negli astanti, quantomeno all’inizio, una sorta di reazione dalla catastrofica morfologia, quell’illusione vanificata che, poi, tende a scantonare in una rabbia cieca e distruttiva in grado di animare lo spirito dell’uditorio portandolo a pensare davvero che, imprecazioni vocali alla mano, con l’adozione di qualche paragrafo in aggiunta, quel libro sarebbe stato uno dei migliori letti in assoluto?
Perciò, tutti coloro che con me hanno da spartire un tale atteggiamento disfattista nei confronti della brevità letteraria possono comprendere, senza alcun volo pindarico, la mia esitazione nell’accostarmi a questo romanzo facente parte della letteratura d’Irlanda, perplessità molto ben radicata che, malauguratamente, ostenta uno scatto matto fatidico e incontrovertibile, assioma basilare che pone le sue fondamenta sul terreno solido dato da un trascorso di amare insoddisfazioni. Eppure, data la consuetudine di asserire che è l’eccezione a suffragare la regola, ho concesso a Il Castello Rackrent il beneficio del dubbio, ovvia arma a doppio taglio che, con lo spettro del mutamento a una spada di Damocle, si è, invece, rivelata essere il coltello dalla parte del manico, presa salda che le mie grinfie hanno avuto il piacere di constatare in carne e ossa: sullo stesso piano di un memorandum dai toni fortemente idilliaci e tragicamente realistici insieme, Maria Edgeworth riesuma dall’oblio di un pregresso sconosciuto un concentrato narrativo di dinamiche serrate, compatta stratificazione di vicissitudini, da una parte, elencate come lista di punti spogli non approfonditi e, dall’altro lato, investigate negli abissi dei propri meandri dal fondo remoto, spuntandola nel mantenimento di un amalgama unanime che, togliendo il respiro al pubblico, si procura le ore necessarie a gettare nella mischia ulteriori parole dalla lingua lunga, gemme preziose incastonate fra periodi legati in simbiosi, due uniche sezioni autosufficienti e dipendenti che, prive della classica suddivisione in cifre, eruttano lapilli infuocati tratteggianti l’amore per un appezzamento e i suoi legittimi proprietari, una gioia materiale che assume la virtualità delle emozioni quando in campo vengono calate, quali assi nella manica, le relazioni originate e alimentate in siffatte contingenze, legami vigorosi che superano sia le differenze tra ceti sociali agli antipodi e sia le problematiche nate dal naturale fiorire di condotte non austere come dovrebbero essere, un gioco al ribaltamento del convenzionale che, per quanto preveda una genuina e biologica attitudine nei riguardi dell’immensità, si chiude nel poco senza perdere il suo tanto.

Avete mai ricevuto, quale manna dal cielo, l’occasione di leggere un manoscritto così analizzato da sfiorare i confini dell’inattendibile dalle illusorie sembianze poiché una compagine da simile parentado rischia di lambire l’orlo dell’assurdità più inconcepibile, una mitologica chimera che, sfuggente, può apparire quando meno ce l’attendiamo nel lasso di tempo in cui, senza rendercene conto, esigiamo la sua maestosa presenza ingombrante?
Quando un artista dei lessemi si sobbarca il nobile incarico di creare un universo parallelo brulicante contesti d’ambiente in divenire che personificano fondali scenografici da teatro rinomato, visione sommaria eppure dettagliata del posto che, musicale nell’accompagnare a braccetto l’attento scrutatore sul palco della ribalta, pullula di ieri, oggi e domani, la triade obbligata per qualsiasi vicino della porta accanto ivi collocato qualora nascondesse in seno l’obiettivo di essere realmente e lasciare un’impronta del sé nel corso dell’itinerario di tutti, la replica comportamentale di un lector vulgaris medio è ovviamente un’isteria da Guinness World Records, espressione normale dei turbamenti interiori collegati, in via diretta, alla scoperta delle scoperte, apprezzato ritrovamento di un gioiello perlaceo dalla rara e incredibile bellezza estrinseca.
E se tutto ciò fosse racchiuso in un singolo libro dalla mingherlina silhouette che, per questa ragione apparente, potrebbe venire ignorato poiché giudicato “colpevole”, suo malgrado, prima di una legittimazione tangibile con processo di suoi pari regolarmente istituito? Con il suo Il Castello Rackrent, l’autrice inglese dai natali irlandesi ha saputo centellinare lo spazio a disposizione rendendolo capiente abbastanza per incamerare tra le sue mura un catalogo ben stipato di elementi dalla varietà dilagante, rilevanze assai descritte che, in talune situazioni, permettono alle inutilità di farsi avanti e brillare, evidenziando in questo modo il rispetto che viene associato ad ogni tassello di mosaico, sottigliezze di coda che diversificano e completano una trama ponderata all’ossessione dove, con una sparuta manciata di vocaboli in libertà, le esposizioni narrative di Maria Edgeworth risultano assimilare un’eloquenza a impatto fugace, respiro subitaneo che palesa la sua psiche duratura costringendoci a impersonare direttamente le vesti del signor Quirk, uomo anziano che ha visto scorrere di fronte a sé gli anni della fanciullezza in germoglio, della maturità in crescita e della vecchiaia in declino, Sole che da Oriente esaurisce in Occidente proprio all’orizzonte di un’era ormai in decomposizione, fine di ognuno e fine per tutti, genitrice malevola che accoglie i buoni e scansa i cattivi, dannando i primi e benedicendo i secondi al pari dei giorni nostri in cui la cruda e nuda sorte porta a un perpetuo travaglio del porre un piede davanti all’altro, destino infausto che, però, ha tra gli artigli la lieta novella del per sempre, la pagina di un diario dall’esile figura che i posteri potranno sfogliare, accettare e amare, incondizionatamente.

Quando l’occhio clinico dell’infaticabile lettore subentra nella partita gustando in anticipo l’ennesima peripezia da assaporare, impatto fortunato che la suddetta inclinazione congenita brama più di ogni altra dagli esordi, in base al conseguente umore del momento durante il quale, ponderatezza allineata sul luogo della feroce battaglia a suon di vocaboli e segni d’interpunzione, viene scelta l’avventura di carta con cui trascorrere in serenità gradevoli istanti a cavallo di un’impetuosa utopia e sull’orlo traballante della concretezza, filiforme spaccatura di un baratro dalle infinite opportunità che già si è preparati a incontrare lungo il tragitto da preludio a epilogo, il legittimo detentore del potere anomalo viene orientato all’indirizzo di uno specifico genere d’appartenenza, una branca d’interesse che, dopo avervi stazionato parecchio grazie ad antecedenti tuffi carpiati nell’oceano d’inchiostro, veste i panni di un mondo conosciuto quanto le proprie tasche, impercettibili nei d’autore che a menadito si ricordano e a menadito si pretendono: forse dalle seguenti mie parole emergerà una specie di inutilità nella chiarificazione in merito, ma comunque sento il dovere di puntualizzare che io adopero con elevata frequenza l’accurata prassi qui sopra esplicitata nell’attimo in cui colgo il bisogno di selezionare il nuovo rimpiazzante il vecchio, un carissimo amico ventilato dalla novità che sento, però, di conoscere ancor prima di schiudere con delicatezza ed esaminare con premura il regalo di cui si fa gloriosamente carico.
Tuttavia, non si può mai sapere cosa le entranti letture covino in serbo per noi, improvvisate positive o negative, alla luce del quantitativo di sventura in riservato possesso, che, ciò nonostante, allontanano con il soccorso di un unico colpo di ramazza le previsioni nutrite dal viandante errabondo, quelle aspettative lapalissiane che possono fuorviare anche il più esperto navigatore d’oltremare: infatti, cominciando dalla prefazione realizzata dalla scrittrice medesima, Il Castello Rackrent si è mostrato, in ogni senso, un classico Particolare, diario privato di uno spaccato comune in cui, grazie alla narrazione in prima persona, lo sbranatore irrefrenabile di pagine viene catapultato, un salto nella distesa incontaminata delle lande trifogliate che prende alla sprovvista attraverso il dialogo a tu per tu instaurato dal vecchio Thady con il destinatario del suo racconto, esistenze in tempi canuti che si appropinquavano, separandosi, e si eludevano, ravvicinandosi, binari di un treno su cui favola e realtà galoppano insieme dal principio alla fine, scambiandosi con l’assidua iterazione del caso per dominare una volta e sottostare la seconda, amare verità da esporre al ludibrio generale che padroneggiano il totale coinvolgimento delle masse, quella masochistica attrazione verso le tragedie del prossimo che, seppur sappiano custodire l’essenza drammatica di giorni impegnativi e funesti nel mero valore della loro struttura primaria, rammentano del presente di una vita, omaggio di sempre che, durando per poco, rimane nel cuore per l’eternità.

 

 

 

 

Valutazione:

 

Scheda libro

Titolo: Il Castello Rackrent
Autrice: Maria Edgeworth
Casa editrice: Fazi Editore
Pagine: 133
Anno di pubblicazione: 2017
Genere: Narrativa storica, Classici
Costo versione ebook: 7.99 euro
Costo versione cartacea: 15.00 euro
Link d’acquisto: Amazon (ebook), Amazon (cartaceo)
Sinossi: Thady Quirk è il vecchio servitore di un’antica famiglia anglo-irlandese. Nel corso della sua lunga vita trascorsa al castello Rackrent (letteralmente il castello ‘arraffa-affitti’) ha assistito alla progressiva decadenza dei suoi aristocratici padroni: Sir Patrick, che riempie la casa di ospiti e si ubriaca fino alla morte; Sir Murtagh, il suo erede, un “grande avvocato” che rifiuta di pagare i debiti di Sir Patrick “per una questione d’onore”; e Sir Kit, giocatore d’azzardo che alla fine vende la proprietà al figlio di Thady. Generazione dopo generazione, il graduale declino della famiglia diventa la simbolica premonizione dei profondi cambiamenti che investiranno la società irlandese e dei problemi che, a oltre duecento anni di distanza, sono ancora ben lontani dall’essere risolti.
Apparso all’inizio del 1800, anno in cui si compiva l’esautorazione del Parlamento di Dublino e si preparava la strada all’unione tra l’Irlanda e la Gran Bretagna, Il Castello Rackrent ebbe un enorme successo. Politicamente audace, stilisticamente innovativo e incredibilmente piacevole, questo romanzo è una tappa fondamentale della letteratura irlandese e un grande classico da riscoprire.