Dopo un Marzo durante il quale mi sono destreggiata tra bellissimi momenti dove la felicità straripava da ogni poro e istanti lugubri in cui mi sono trovata impelagata senza possibilità di scappatoia alcuna, uno scambio non proprio equo che ha visto l’altalenarsi tra la mia mini vacanza a Venezia e il breve periodo di malattia che mi sono fatta quasi a voler compensare la pausa concessami dalle recensioni, una sorta di contrappasso, se vogliamo proprio essere esagerati, con l’obiettivo di giudicare la mia condotta oltraggiosa di blogger scansafatiche, chiudiamo in bellezza queste parentesi, più o meno gradite, con l’appuntamento mensile, ormai abitudinario e consolidato, della Creativity Blogger Week, idea balenatasi nella mente dell’amica e collega Deb di Leggendo Romance.
Creazione a cura di Federica, admin del blog On Rainy Days
Come mi sono ripromessa di fare all’inizio di questa rubrica in condivisione, oggi vi regalerò un altro racconto di mio pugno nel quale risponderò all’argomento scelto di comune accordo tra noi partecipanti, il cosiddetto Girl Power, un modo decisamente esplicito di celebrare la figura della donna in tutte le salse possibili: per l’occasione, non solo ho scelto di scrivere una storia facente parte del genere epic fantasy, un sottoinsieme letterario che rappresenta uno dei miei amori travolgenti su carta, ma ho anche deciso di dar voce a un personaggio abbastanza particolare, una regina malvagia che è spuntata dal nulla quando stavo facendo il rewatch della serie televisiva I Tudors con l’intento di concretizzare il mio personale sogno di dire basta ai sistemi patriarcali.
In un Mondo di pura misoginia dove l’uomo sembra detenere da solo un potere quasi totalitario con cui detta legge senza alcun ritegno, in che maniera una donna può essere davvero rispettata? Nessuno lo sa e, così, nemmeno Mellia, una giovane ragazza colpevole solo di appartenere al sesso debole. Eppure, forse, per lei e quelle come lei all’orizzonte c’è una scoperta capace di stupirle nel profondo, qualcosa o qualcuno che, rivelandosi luce, dall’ombra risorge.
«Un simile piagnisteo è la dimostrazione tangibile di quanto vi ho appena detto, Mellia: siete una debole, tutte voi donne siete assolutamente e inequivocabilmente deboli! Prima ve ne renderete conto, prima vi accorgerete dell’unica vostra utilità a questo mondo…» latrò lo smargiasso del paese, colui che, mentre osservava la sua vittima preferita in lacrime e in ginocchio, si sentiva fiero di sé stesso e, tronfio per le ignominie poc’anzi sputate con immenso disprezzo, si assicurava il totale plauso dei benpensanti suoi compari.
«E sapete, di grazia, dove giace la vostra triviale competenza?» sibilò in aggiunta il ragazzino impertinente, quasi fosse a digiuno delle solite millanterie a cui dava libero sfogo di notte e di giorno, un continuo avvicendarsi di gratuite denigrazioni alle quali sottrarsi non era capace, visto che far di conto a scuola, come l’intera popolazione aveva ormai inteso, non era affatto il suo forte.
Purtroppo per Mellia e per chi alla sua stregua era costretto a sorbirsi tali attacchi vituperatori, il guascone, al contrario, nutriva una dissennata abilità nell’incamerare sufficiente fiato per dare colpi di grazia con inappropriati lessemi dal contenuto oltremodo inadeguato a puerili cicalecci: «Imparare ad aprire le gambe a sufficienza per fornicare con un uomo e partorire figli maschi sani».
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Se all’inizio provocò un momento di attonita paralisi nella globalità degli spettatori, non appena raggiunse le infime orecchie pronte all’ascolto per sollazzarsi beatamente, la mordace sentenza capitale dell’uno altezzoso impose alla nequitosa congrega sul fondale della scena di prorompere in una volgare esplosione di mostruose risate: più l’indifesa creatura singhiozzava quale lapalissiana conseguenza del dolore arrecatole a suon di vocaboli inquisitori, più gli scherni traboccavano diuturni e altisonanti, vortice impetuoso che, serrando il suo corpicino esile da fragilità in miniatura, non le avrebbe permesso di celebrare alcuna fuga.
Il danno, tuttavia, è sempre accompagnato dalla proverbiale beffa. Infatti, a peggiorare la situazione, sommando altro strazio a quello già presente nell’animo della poveretta, vi era la consapevolezza che nessuno sarebbe mai intervenuto in suo aiuto, rivolgendole anche solo uno sguardo di conforto in grado di silenziare la baraonda in atto, un trambusto fuori controllo che sembrava richiamare il pompare furioso del suo cuore: quale fosse la ragione alla base di un simile atteggiamento inerte di fronte al palese abuso, se il desiderio di quieto esistere o l’approvazione totale delle parole o, ancora, la più cieca delle indifferenze, il minimo comun denominatore era la codardia, pusillanimità di un universo in declino che dell’empatia non conosceva più i tratti peculiari.
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Katerina, però, sapeva distinguersi dalla gentaglia lì intorno. Fin da bambina, le era stato insegnato a scegliere non solo il giusto attimo per agire, ma anche la modalità con cui affrontare il nemico senza complicazioni fattuali, preparandosi a ogni contingenza della vita come se dovesse scendere in battaglia e destreggiarsi con il suo arco meccanico, gentile lascito di un’avventura che ancora le risuonava nel profondo. Quando, perciò, si ritrovò ad assistere al sopra citato teatro dell’orrore, sgomenta dinanzi all’ignavia dei Croceviari, percepì nella testa il martellare indefesso del giustiziere albergante in lei, quell’indole combattiva tramite la quale era stata inserita con verdetto unanime tra i guerrieri più valorosi del Mondo.
«E sai tu dirmi, piccolo e sudicio sterco di ratto, qual è il compito di un uomo in questo terreno peregrinare prima di tirare le cuoia?» domandò la vampira con voce ferma e sguardo fiero, incrociando le braccia al petto e divaricando le gambe, posizione che di femminile e docile aveva ben poco.
«Chiavarti fin quando non urlerai pietà e mendicherai la sua indulgenza?» sentì in dovere di rispondere il beota perché, rimasto ferito nella mascolinità sia per l’interruzione non programmata del pubblico ludibrio da lui causato sia dall’evidente contumelia dell’immortale sanguisuga, voleva marcare il territorio spadroneggiando pure sulla nuova arrivata.
Katerina sorrise, quasi volesse dimostrare una sua concordanza con la misogina opinione, ma, scoprendo i canini superiori allungati in una smorfia non troppo amichevole, pronunciò con astio quanto qualcuno con un minimo di buon senso avrebbe già dovuto dichiarare da tempo: «No, razza di idiota della peggior specie! L’uomo non dovrà far altro che ringraziare a profusione gli Antenati per il regalo concessogli poiché la donna è un presente senza il quale nessuno avrebbe né passato né futuro».
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Il silenzio calò quale scure su un candido collo in attesa della fine, taglio netto a cavallo di un ceppo insanguinato da altri che definì l’indiscutibile epilogo del vociare ormai diminuito prima e del brusio in via di estinzione poi: per Katerina, codesto pareva proprio essere il momento migliore per continuare il dibattito a senso quasi unico.
«Abbi, quindi, la decenza di porgere le tue scuse, mentecatta progenie della feccia umana, perché, senza le ave della giovane che tanto denigri, tu non esisteresti» disse decisa e, dopo aver scandagliato a uno a uno i taciturni vicini con occhi capaci di giudicare anche gli innocenti per antonomasia, aggiunse: «E di certo, neanche voi altri».
Tali semplici lessemi enfatizzati dal riverbero circostante permesso da un’inedita e tombale atmosfera si dimostrarono essere per Mellia l’incipit dell’adeguato lenitivo ai singulti che l’avevano colta in fallo al principio della fallocrate invettiva, tremule manifestazioni di un odioso ricevere senza aver mai osato chiedere: in fin dei conti, era la calma a seguito della tempesta a sancire ogni volta la tregua di un animo in tumulto.
Eppure, con la paura tipica di una bestiola non ancora completamente tratta in salvo, non riuscì sul momento ad alzare il capo ormai anchilosato per la malagevole posizione china con la quale stava familiarizzando perché non osava credere alle parole della sua salvatrice, considerato che, è arcinoto, l’indole di ognuno può mostrarsi tanto volubile quanto una banderuola in balia del respiro indomabile della Natura. Perciò, terrorizzata dai risvolti spiacevoli che la vicissitudine avrebbe potuto sfiorare troppo in fretta, rimase in quell’atteggiamento penitente, quasi sentisse il bisogno di chiedere scusa per il sangue di donna che scorreva nelle sue vene dove il fiore dell’età era appena germogliato schiudendo petali agognanti esistenza, pugni chiusi in una morsa così letale da impedire il respiro anche alla gonna dell’abito sdrucito indossato dalla giovinetta.
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«Suppongo che adesso sia giunto il momento di alzarti, piccola: sei d’accordo?» domandò a bassa voce Katerina, cercando di non intimorire ulteriormente la sbeffeggiata in preda ai postumi della requisitoria.
Cautela alla mano e circospezione in seno, Mellia alzò piano i suoi occhi per incrociare quelli gentili di un’esemplare femminile dalla notevole beltà che, nonostante fosse alla sua ima bassezza, non esteriorizzava la paradigmatica remissività della postura: sguardo celeste che richiamava le limpide Cascate di Picco Grigio e capelli dal color paglierino come gli iridescenti raggi del sole, Katerina sapeva anche palesare una dolcezza infinita sotto la scorza intransigente di cui aveva fatto già largo sfoggio nel verde smeraldo della Conca Verde, un’ampia vallata in cui tutto, così com’era iniziato, era tramontato in dissolvenza.
«Vuoi una mano per sollevarti?» seguitò a chiedere sommessamente la vampira offrendo, al pari di un armistizio, una delle perle rare che usava per scoccare le frecce, sebbene, notando come la ragazza tendesse a fissarla senza muovere un solo muscolo, fosse indotta a pensare che, in qualche maniera, più o meno consapevole, la sua presenza immortale avesse procurato uno spavento talmente grande da averla azzittita per l’eternità.
«Sono sincera se ti dico che non voglio farti del male. Nessuno ne ha più intenzione adesso: come puoi constatare tu stessa, gli scimuniti se ne sono andati con la coda fra le gambe» bisbigliò l’amazzone testarda, abbassando l’aiuto offerto e continuando un monologo che iniziava a starle stretto quanto un corsetto asfissiante cui era obbligata a indossare nelle occasioni ufficiali al Palazzo Sempiterno.
«È la prima volta che qualcuno mi soccorre. Io-io… Sono così spiazzata da-da non saper nemmeno cosa pronunziare per esprimere la-la mia riconoscenza nei vostri riguardi, No–Nobile» sussurrò la balbettante Mellia, inchinandosi a sufficienza per portare rispetto alla sua nuova eroina.
Katerina sorrise e, dopo averle alzato la testa con un leggero tocco di indice guantato, fissandola nei caldi occhi marroni, le disse: «Non dovresti stupirti del cameratismo tra donne, mia cara: siamo essere vipere tra noi, certo, ma, quando la vita pone al nostro cospetto ostacoli insormontabili, non riusciamo a stare a guardare senza provare insieme a superarli».
«Non ho mai avuto l’onore di conoscere simili dame, Mia Signora…» dichiarò in modo quasi impercettibile il virgulto ancora combaciante al suolo, pozza scura di terra calpestata, lana infeltrita e stille salate ormai asciutte.
«Ah, davvero? Benissimo, dunque; direi che è giunta l’ora di raccontarti una storia: ti dimostrerà che non è necessario essere un uomo per avere un intero Mondo ai tuoi piedi…»
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Fra le infide acque dei Mar Meridionali dove i Gorghi Centrali, dileguandosi in spuma biancastra, permettono ai naviganti di riacquisire una tranquilla rotta priva di smottamenti concentrici, una volta oltrepassato l’Arco della Morte la cui spettralità, si vocifera, è dovuta all’altare votivo che nei suoi pressi la stessa Signora dalla Falce Acuminata ha edificato per il culto alla Sua Persona immateriale e maledetta, qualora si avesse il bene placito del capriccioso dio Lymphadius, tanto protettore quanto avversario dei viandanti nautici, ci si potrebbe imbattere in Dominuxor, isola errabonda dove uomo e libertà non prevedono mutua coesistenza.
L’oasi femminea della regina Ursula, infatti, rappresenta un’arma a doppio taglio per qualsiasi marinaio sufficientemente ardimentoso da aver raggiunto incolume la sola vista dell’attempato aspidochelone su cui giace indisturbato uno dei sistemi matriarcali più temibili a questo Mondo, una trappola travestita da paradiso terrestre dove chi si perde non ha via di scampo: se da una parte, nell’istante in cui le navi straniere sbarcano a riva, l’esemplare maschile viene accolto a braccia aperte sulle sponde del regno, vedendosi offrire non solo vitto e alloggio come si confà all’ammirevole accoglienza di un impero benevolo, ma anche prestazioni creative per altre tipologie di vorace cupidigia, dall’altro lato, a mano a mano che l’ubriacatura da nudità esplicite e ricchi doni da sovrani in trasferta evapora nei passionali gemiti dei Fervidi Venti, l’agghiacciante risveglio dall’evidente illusione si materializza in un battito di mani, un unico applauso stentoreo della Nova Maiestas che ordina in via definitiva l’incarcerazione dell’edace gentaglia con cui poco prima condivideva i giocosi trastulli.
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Perciò, gli affabili esempi di virtù quali si manifestavano i sinuosi e lascivi corpi delle ancelle di Ursula, magnifiche creature dalla chioma dorata che, essendo figlie di sangue della splendida monarca, la rispecchiavano nell’aspetto ultraterreno e nelle leggiadre movenze di chi non solo sa cosa vuole, ma anche come ottenerlo, mostravano la loro vera natura acrimoniosa, senza trasformarsi prevedibilmente nella triviale esteriorità, bensì nell’animo ora marcescente celato con dovizia da occhi indiscreti che non lo avrebbero dovuto comprendere ipso facto.
Di fronte alla perspicuità degli eventi ormai innescati da un fato assai malevolo, le vittime sacrificali avevano una scelta da prendere, optare per un’infinita schiavitù su Dominuxor agli ordini delle insaziabili abitanti dell’isola oppure ottenere la libertà copulando una sola volta con la regina per procreare l’ennesima erede femmina, prestigioso obiettivo dell’anzidetto atto carnale.
Ottimisti nella tangibile realizzazione della propria chimera di fuga e vanagloriosi rispetto le ars amatorie che avevano collaudato a dovere prima e dopo il loro arrivo in quell’Eden infernale, i prigionieri tendevano sempre a convincersi che possedere la madre delle arpie conosciute molto a fondo fosse la decisione più sensata.
Purtroppo per loro, Ursula non aveva mai mantenuto la propria parola in vita sua. Invero, a seguito dell’accoppiamento completo che a malapena perdurava per una decina di rintocchi, oscena attestazione che nemmeno a scopare quegli idioti sapevano eccellere, e dei nove mesi canonici per far sì che la gravidanza si sviluppasse e desse i suoi frutti maturi, qualora il germoglio avesse ereditato dal padre pure il sesso, la regina, schifata del risultato aborrito, non solo avrebbe ucciso in pubblica piazza l’uomo come dimostrazione che con lei non si doveva in alcuna maniera scherzare, ma avrebbe manifestato la sua furia anche sulla stessa prole del suo grembo, destinandolo al medesimo martirio di chi non ha colpe pur avendole. Se, invece, la tanto bramata femmina arrivava sana e salva nell’abbraccio della madre affettuosa, la Nova Maiestas comandava la scarcerazione del provvisorio concubino, palesando la propria gratitudine persino nel donargli, di sua sponte, l’imbarcazione della salvezza: adorava osservarli nel tentativo di allontanarsi indenni da Dominuxor, in particolar modo quando, a un suo cenno maligno, la balena divorava barca e singolo equipaggio in un sol boccone.
Dopotutto, avendo già adempiuto ai loro doveri, erano più che pronti ad accogliere la Morte e quanto ne sarebbe dipeso.
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«Cosa ne dici? Ti ho convinta oppure ancora nutri dello scetticismo in merito?» domandò giocosa Katerina, sinceramente interessata al parere della giovane Mellia che, ritrovata la tranquillità d’animo, riuscì a palesare il suo fresco e vivace spirito rispondente ai canoni dei suoi anni già compiuti.
«Sono più che soddisfatta, Nobile vampira! Anzi, forse azzardo troppo asserendo ciò, ma… Vorrei tanto essere come Ursula per non aver costantemente paura del Mondo e di chi lo popola» constatò pensierosa la giovinetta, mentre si alzava da terra e ramazzava l’indumento per quanto poteva in mancanza di acqua e sapone.
«Non dovresti preferire lei a te stessa, piccola gioia! Prova a confidare di più nelle tue infinite possibilità e concediti il beneficio del dubbio: sarai sorpresa della forza che dalle tue membra può scaturire» garantì l’immortale con uno sguardo d’incoraggiamento che non ammetteva rimostranza alcuna, nel momento in cui si stava stiracchiando le gambe dopo essere ritornata alla sua statura reale.
Forse un po’ intimidita dalla sicurezza della guerriera, forse un po’ vergognosa del complimento appena ricevuto, con un lieve rossore sulle gote, la ragazzina prese a indietreggiare per correre alla sua dimora dove genitori apprensivi sicuramente la stavano attendendo per desinare, non prima però di increspare le labbra regalando alla sua interlocutrice il sorriso più bello e sincero di cui era capace.
Creazione a cura di Federica, admin del blog On Rainy Days
29 Marzo 2019 at 11:05
Te lo ridico: mi piace tanto!
Il tuo modo di scrivere sempre così poetico mi piace un sacco quindi: continua così!!!
29 Marzo 2019 at 14:56
Il racconto è davvero incredibile e bello da leggere! È talmente ricco che ci si immerge nella storia e no ne si vuole più uscire.
Bellissimo ❤️
1 Aprile 2019 at 20:18
Lara è bellissimo! Mi piace molto come scrivi, la ricchezza di parole che usi, e le storie sono piene di fantasia, bello davvero! <3