Assicurandovi che questo non è uno scherzo malgrado oggi sia esattamente il primo di aprile, occasione fortunata per i burloni di ogni specie e tipologia che se la prenderanno comoda pur di vedere le proprie celie realizzate ad arte, grazie all’invito di Ely de Il regno dei libri che mi ha voluta coinvolgere nella presente iniziativa, La Nicchia Letteraria è lieta di partecipare al blogtour dedicato al libro Project Digito: Anima, la più recente fatica vergata di Marco Chiaravalle che, attraverso il servizio di self-publishing, regala al pubblico un memorabilissimo testo inchiostrato capace di ghermire il cuore di tutti, persino quelli restii a vedersi sequestrati anima e corpo.
Creazione a cura di Ely, admin del blog Il regno dei libri
A seguito della prima tappa curata da Bookspedia che riguarda i cinque motivi per cui questo libro dovrebbe incarnare un must have delle vostre librerie digitale e/o fisica, dopo il secondo appuntamento della piattaforma Il Mondo Di Sopra che sonda, con cura millimetrica, le tecniche narrative e lo stile dell’autore, io mi occupo del viaggio onirico, dando il meglio della sottoscritta attraverso un trip mentale che nemmeno la peggiore ubriacatura da Estathé al limone mi consentirebbe di avere, salto carpiato nel vuoto che ho avuto il coraggio di intraprendere solo per merito di un certo Simone Baum e la sua specifica storia.
La realtà non è mai come la si desidererebbe.
Ai margini della routine più noiosa e asettica, una vita qualsiasi tende inevitabilmente a mescolarsi col grigiume del circondario, afa pesante entro la quale si è costretti a procedere in un’unica direzione, quella seguita da tutti, quella voluta da nessuno, cammino in avanti che, per quanto provi a guardare al futuro, risulta ancora ormeggiato al passato, là, dove ricordi luttuosi affollano menti stremate oltre il consentito.
La prostrazione interiore si manifesta all’esterno come ombra incapace di abbandonare i novelli Peter Pan dell’esistenza, schiere di uomini e di donne che, abituati dal ticchettare infinito dell’orologio, si accontentano di scrutare il proprio tempo da una posizione di (s)vantaggio, la medesima ubicazione che utilizzerebbero qualora fossero spettatori e non protagonisti.
Osservo i volti dei passeggeri, cercando qualcosa di stimolante. Eppure, per quante metro abbia potuto prendere nella vita, i tipi di persone sono sempre le stesse: il businessman, la madre col figlio che dorme sulle gambe di lei, il musicista, lo studente universitario, il barbone, la coppietta di innamorati, la zingara. Cambiano gli attori ma non le parti. Nulla di interessante.
Un simile genocidio di cervelli, prodotto dalle offerte nude e crude di un destino a dir poco esiziale, accompagna chi ne sente la necessità verso la sola illuminazione possibile, strada maestra che conduce all’uscita d’emergenza più vicina, la traversa in penombra, quella scorciatoia adoperata da una manciata di coraggiosi che in un universo parallelo li guida per mano nei sogni più vividi, prima miraggi bellissimi nei quali si vorrebbe rimanere per sempre, poi incubi scabrosi da cui fuggire sarebbe l’imperativo, altalena emotiva che, qualsiasi fattezza decida di vestire in un istante o nell’altro, riesce a soccorrere i bisognosi medicandone le tangibili ferite di ieri ancora non cicatrizzate nell’oggi: in fin dei conti, il domani incerto impaurisce di meno se lo si inizia ad assaporare nella stretta di quattro mura utopiche, dolce cullare che, ondeggiando perpetuo, mostra il già avvenuto per riproporlo come non si era mai visto.
«[…] Vuoi esser liberato anche tu da questa vita?»
Eppure, un dubbio basilare sorge istintivo venendo a galla nella foresta oscura delle questioni amletiche da risolvere: potrebbe un lenitivo così giovevole nascondere, nell’interezza dei suoi meandri, notevoli contraccolpi che la malcapitata vittima sacrificale dovrà certamente affrontare una volta usciti allo scoperto?
Nonostante sia il piano di fuga da un’esistenza stretta quanto una morsa di boa constrictor, decidere di (ri)vivere se stessi in un castello di carte ove il passato prende nuova consapevolezza del proprio riflesso per ottenere l’emblematica seconda chance non sempre risulta essere l’azione dettata dal buon senso, ma identifica un viaggio solo andata e senza ritorno, qualcosa di improbabile che non permette di svegliarsi, avventura illusoria che surclassa il conosciuto inducendo a chiedersi quando termina il sogno per far cominciare la realtà.
«Era solo un sogno. Era solo un sogno…»
1 Aprile 2020 at 15:26
Questa tappa sembra fatta apposta per te hai reso benissimo l’idea