Quando è trapelata la notizia ufficiale per cui Disney, il notorio marchio d’animazione che, sebbene ci abbia regalato, attraverso i rimaneggiamenti di fiabe classiche, solo modelli di vita prevalentemente a lieto fine ed esempi di amore forse troppo utopici per i qui presenti comuni mortali, ringraziamo ogni giorno per averci condizionato l’intera fanciullezza, crescendoci pian piano con uno stile immediato ed efficace nell’obiettivo di incarnare ciò che ora siamo e un domani saremo, ha acquisito il conglomerato mediatico 21st Century Fox, il primo pensiero generatosi nella mia mente è stato che, alla fine, le preghiere di noi ammiratori più sfegatati non solo sono servite a qualcosa, ma sono anche state davvero ascoltate poiché la bellissima Anastasia, da quel momento in poi, è diventata, a conti fatti, una principessa della casa di Mickey Mouse, sogno a occhi aperti che, realizzandosi in concreto, ha trasformato l’impossibile in attuabile proprio come il buon Walt ci ha insegnato nei suoi film indimenticabili.
Dunque, appena Susy del blog I miei magici mondi, a nome dell’organizzatrice Ely de Il Regno dei Libri che non smetterò mai di ringraziare per il caloroso invito, mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto partecipare al blogtour dedicato al romanzo di Ariel Lawhon, confessandovi di non averci riflettuto poi molto col forte rischio di scadere in un’enorme faciloneria da guinness, con il mio background di amante del cartone firmato “Volpe” ho accettato subito, curiosa inoltre di entrare nei meandri dell’epoca temporale alla quale appartenevano gli ultimi Romanov protagonisti della pellicola: benché nutra un interesse sufficiente a farmi avvicinare di mia volontà alla storia, passione speciale che ha infiammato il mio animo dall’istante in cui ho scoperto accidentalmente Alberto “Divinità scesa in Terra” Angela e il suo programma televisivo Ulisse, ammettendo però di possedere, nei confronti di tale argomento importante, notevoli lacune sin dalle elementari forse perché gli insegnanti a me capitati non hanno saputo stimolare abbastanza la mia giovane indole ancora da plasmare, tuffarmi nelle pagine de Il mio nome era Anastasia è stata un’esperienza unica nel suo genere, da una parte apprendimento sincero della parentesi russa negli anni di inizio Novecento, dall’altra sbigottimento autentico nel constatare la misura nella quale una persona può, in maniera deliberata, ferire il suo interlocutore, vocaboli e azioni che, alternandosi cruenti, non lasciano alcuno scampo.
Creazione a cura di Ely, admin del blog Il Regno dei Libri
Mentre tutti i bambini della mia età magari preferivano stare all’aperto per giocare a pallone, divertendosi in compagnia dei loro pari con le risate tipiche di chi non aveva pensieri per la testa, la sottoscritta si trovava, di sicuro, entro le mura domestiche nel tentativo di approcciarsi, con esitazione prima e con dimestichezza poi, ai cosiddetti puzzle, involucri sigillati di tasselli dimensionalmente uguali che, rappresentanti un minuscolo particolare all’apparenza privo di significato, se posti nell’esatta locazione a essi confacente, sanno generare insieme un’immagine finale dalla tempestiva comprensione, quadri d’autore che rivivono nella propria dimora senza essere obbligati a percorrere chilometri su chilometri per ammirarne la versione originale a volte inaccessibile, paesaggi artistici dove il desiderio di viaggiare può scatenare indisturbato la personale natura di pellegrino evitando costi aggiuntivi che non tutte le tasche possono permettersi, istantanee di vita rubata nelle quali ci si può specchiare con umile libertà impersonando qualcuno diverso da sé stessi per tutto il tempo agognato dai medesimi.
Originando un enigma Contorto dagli almeno 5000 pezzi in su, matassa aggrovigliata di fili che sembrano troppo accavallati per essere districati completamente in un futuro prossimo, lungo il percorso letterario scaturito come magma incandescente dall’eruzione vulcanica della sua predisposizione ardimentosa, la scrittrice Ariel Lawhon lascia dietro di sé briciole di pane atte a identificare quelle tracce corrette in grado di abbagliare il disincanto e centrare la speranza, inducendo il suo pubblico nella più scoppiettante attesa di conoscenza a formulare ostinate domande che, abbandonate alla deriva della non risposta, richiamano la baraonda dello stile adottato, un’inusuale peculiarità de Il mio nome era Anastasia dove, oscillando fra due voci narranti, la leggendaria quartogenita dello zar Nicola II in prima persona e la misteriosa Anna Anderson in terza, dispiega, all’interno dei capitoli divenutisi assai caotici, un andi e un rivieni che dell’orologio si beffano progredendo e arretrando a piacimento, quasi per dimostrare un ipotetico punto di incontro che sembra, ma non è.
Se possedete una misura tale di sensibilità che, innanzi a della carta inchiostrata dove si svolgono eventi toccanti quanto basta, vi forza a percepire vicinanza nei riguardi delle emozioni zampillate a profusione dai lessemi visionati con dovizia di particolari, avete l’opportunità di comprendere quanto la mia persona cada sempre vittima negli abissi di uno sconfinato moto interiore, sacrificio umano per quel dedalo labirintico in cui rimanere imprigionati finché morte non separi dalle suddette infelici nozze imposte senza voglia alcuna: nell’eventualità che scopra di essere caduta, inavvertitamente, in una risma dalla lavorazione concepita in maniera tale da attingere parecchio alla tangibilità del nostro universo per donarle quell’accettabile parvenza romanzata per cui realtà e fantasia confluiscono in uno stesso tragitto dai bordi non circoscritti in eccesso, l’analogia sentimentale destata nel viandante di china evidenzia una mastodontica preponderanza a condividere il bagaglio affettivo, trasformandolo in un rustico esplosivo a cui manca davvero poco per scoppiare e, di conseguenza, lasciare, dietro di sé, il vuoto di un’esistenza passata a ridere e piangere con amici fittizi spinti verso una sorte che della chimera stringe un pugno di volatili insetti.
Il mio nome era Anastasia si riassume proprio così: ottenendo l’accurato materiale sul quale è fondato dagli annali disponibili a tutti coloro che vogliono rendersi edotti delle peripezie capitate in un mondo più datato della nostra contemporaneità, vergando i lessemi in cascata mediante sporadici baleni che, illuminandosi a giorno pure nelle notti oscure e tempestose, fanno volare sulle ali dell’immaginazione gli astanti coinvolti nella narrazione descrittiva, Ariel Lawhon esibisce di fronte a occhi attenti un’opera che, sapendo del vero, si scusa del bugiardo in un trastullo all’ultimo sangue dove perire è ineluttabile, comprensione del testo dove affiora, dalle ombre di un pregresso ormai indelebile, la globalità di essere (dis)umani, spietati atteggiamenti che, se con leggerezza paiono essere provocati, con rigidità vengono accettati, un do ut des Raccapricciante che induce a riflettere sull’infinita cattiveria di un individuo, preferendo, a volte, ignorare.
Creazione a cura di Ely, admin del blog Il Regno dei Libri
Come già ho avuto modo poco sopra di delucidarvi a riguardo, benché questo topic abbia di frequente avuto su di me un vigoroso ascendente tramite il quale percepisco un sempre più rinfocolato magnetismo nel cuore a digiuno di nutrimento Storico che mi indirizza verso un antico amore forse solo sopito, in attesa di tempi migliori, avendo, con pertinacia, annoverato nella mia esperienza pregressa una sorta di ostacolo nell’immagazzinare fatti e relative date, magari causata dal mio dominante astio nello studiare nozioni esclusivamente per ricevere una valutazione numerica positiva dal docente di turno, seppur con moderazione nel lancio di testa fra i capitoli scritti, non ho mai rifiutato di immergermi in quei libri ove venissero celebrate le epoche che furono, uno strumento differente dai consueti per riempire i buchi lasciati sia da un erroneo apprendimento frettoloso sia da una triviale sbadataggine da tabula rasa non voluta. Avventurarmi ne Il mio nome era Anastasia si è rivelato un viaggio oltremodo istruttivo, grazie alla cui attinenza a contingenze realmente successe ho potuto sviluppare il mio scibile in merito, non solo aggiungendo particolari vividi a quanto già la mia padronanza delle poc’anzi menzionate informazioni deteneva, ma anche sottraendomi, a ogni paragrafo assimilato, l’effervescente briosità tipica di chi ama leggere, quasi fosse un Dissennatore che, evaso dal mondo di Harry Potter, si è prodigato in questo universo nell’atto di elargire alla mia già avvizzita interiorità il suo bacio mortale, uno schiocco rumoroso di labbra che ha avuto l’ardire di distruggere quasi totalmente le speranze del mio povero cuore. Eppure, una nota stonata appare all’orizzonte della melodia creata da Ariel Lawhon, un accordo fallato che, sebbene non vada a inficiare sulla resa stilistica della scrittrice, ha assunto una sfumatura, per così dire, anacronistica troppo evidente su cui sorvolare senza il minimo appunto da parte mia: forse perché, quando penso alla non attualità, mi immagino uno specifico dizionario che va a esulare dal contemporaneo a cui si può essere più o meno abituati, parlando dell’angolazione entro la quale è la celebre Anastasia a dialogare con l’uditorio, speravo in un lessico, almeno alla lontana, aulico, aspetto che, però, non mi ha impedito di apprezzare il testo con una pioggia di stelle.
Si ringrazia la casa editrice Piemme per la copia ricevuta in omaggio.
Scheda libro
Titolo: Il mio nome era Anastasia
Autrice: Ariel Lawhon
Casa editrice: Piemme
Pagine: 448
Anno di pubblicazione: 2019
Genere: Narrativa storica
Costo versione ebook: 9.99 euro
Costo versione cartacea: 19.50 euro
Link d’acquisto: Amazon (ebook), Amazon (cartaceo)
Sinossi: «Molti hanno raccontato la mia storia. Adesso è il mio turno.»
Era il 16 luglio del 1918 quando i tumulti che scuotono la Russia dopo la Rivoluzione d’Ottobre prendono forma in uno degli atti più violenti che la storia dell’impero ricordi: l’esecuzione a sangue freddo dell’intera famiglia dello zar Nicola II Romanov. Sua moglie e i suoi figli furono tutti freddati a colpi di fucile nei sotterranei della casa di Ekaterinburg dove erano agli arresti domiciliari. Nessuno sopravvisse, o almeno così si pensò.
È il 17 febbraio del 1920 quando una giovane donna viene ritrovata a Berlino, in un canale, vicina alla morte per assideramento. In ospedale, ormai salva, i medici scoprono che il suo corpo è ricoperto di orrende cicatrici. E quando finalmente la donna apre bocca, sarà per dire il proprio nome: Anastasia. In molti non le credono: per loro è solo Anna Anderson, una polacca emigrata in Germania, a cui interessa soltanto la fortuna della famiglia zarista. Ma in Europa comincia a diffondersi, tra reali in esilio e circoli dell’alta società, la voce che la giovane Anastasia sia sopravvissuta. Che la figlia più piccola dello zar Nicola II e della zarina Alessandra, la spericolata bambina che tutti amavano, sia ancora viva.
Tra speculazione, verità, inganni, Ariel Lawhon costruisce un romanzo ricco, sorprendente e prezioso come un uovo Fabergé, raccontandoci la storia incredibile di Anastasia Romanova e di Anna Anderson, la donna che sostenne sempre di essere la granduchessa russa, giocando in modo irresistibile con la Storia e i suoi misteri.
19 Luglio 2019 at 20:46
Mhm stavolta tra i tre aggettivi da te scelti io ne dico un altro: incalzante. Perché secondo me tutta la storia ha quel ritrmo incalzante che vuoi scoprire cosa accade, è stata una lettura non facile ma davvero ricca di emozioni.
Contorto come dici tu è esattamente quello che è questo libro. Perché se da un lato si spera a un finale sereno, dall’altro si è già sicuri di come andrà a finire. L’autrice è stata davvero brava e tu ancor di più a spiegarla così bene.