Mentre cerco di trovare un barlume di serenità rimirando il nebbione assurdo esattamente fuori la mia finestra sul mondo -devo dire che come fenomeno atmosferico mi ha sempre affascinata moltissimo e, in un certo strano senso, spesso mi trasmette la calma che a me manca un giorno sì e l’altro pure: sebbene tu non abbia alcuna idea di cosa possa nascondersi al di là della caligine, l’unica cosa da farsi in questi frangenti è immaginare a riguardo e, visto che non c’è certezza rispetto sia a un ipotetico pericolo sia a una piacevole sorpresa, non ci resta che evitare qualsiasi pensiero in merito. E io, fidatevi, ne ho proprio bisogno nel presente istante di tempo!-, oggi La Nicchia Letteraria partecipa al Blogtour che Susy de I miei magici mondi ha organizzato per Il gatto e la bambina del ghetto di Mala Kacenberg, un’autobiografia molto sentita che Garzanti ha pubblicato la settimana scorsa, precisamente il 10 gennaio.

Creazione a cura di Susy, admin del blog I miei magici mondi

Dopo la tappa iniziale dedicata sia alla presentazione della suddetta testimonianza concernente uno spaccato storico che ancora oggi tormenta, o comunque dovrebbe tormentare, le menti di tutti noi sia i cinque motivi per cui leggerlo porterebbe a un inevitabile arricchimento un po’ mentale un po’ spirituale -Ely de Il regno dei libri ha avuto cura di proporci un articolo davvero bello che vi invito a visionare con attenzione-, passando poi per l’approfondimento bookspedioso di Sara che si è occupata di farci conoscere la co-protagonista indiscussa dell’autrice, la gatta Malach, al meglio delle mie capacità io ho colto l’occasione per analizzare proprio la main character, una bambina straordinaria le cui gesta eroiche mi hanno fatta sentire davvero minuscola e impotente.

 

 

 

 

Divisa tra la passione viscerale per il sapere e l’amore incondizionato nei confronti della sua numerosa famiglia, Mala Szorer è una bambina intraprendente che, sempre pronta a dare una mano alle persone in quel di Tarnogród, la cittadina polacca nei pressi di Lublino dove è nata e ha imparato a vivere circondata dal bene più grande, i suoi parenti, sorride felice innanzi a quanti regali meravigliosi Ha-Shem ha voluto elargire a lei e alla sua comunità un po’ vicina un po’ lontana, omaggiandole di tutto ciò del quale ogni essere umano possa avere davvero bisogno, l’essenziale visibile agli occhi che in moltissimi danno sempre per scontato ma che altrettanto pochi non riescono mai a mettere in dubbio: nell’istante in cui un vicino chiede soccorso per una commissione generica, quando la madre fa un fischio per un aiuto in cucina o durante l’attimo nel quale i vertici dell’istruzione decidono di saggiare la sua conoscenza nonché la sua voglia di apprendere scibile ulteriore, l’osservante ragazzina con una gatta per amica si illumina d’immenso, accettando tutte le sfide giornaliere come se non aspettasse altro.

La nostra era una comunità molto unita che condivideva i momenti di felicità come pure i dolori. Quando qualcuno si sposava, festeggiavamo tutti. Non ci importava di indossare sempre gli stessi abiti, a patto che ci divertissimo. Eravamo un’unica grande e felice famiglia, e insieme celebravamo le gioie della vita di paese con i nostri amici. Nella mia infanzia non ho mai vissuto un istante di noia.

Eppure, anche il periodo più longevo di sereno prima o poi deve tramontare, lasciandosi dietro, e quindi alla mercé del prossimo ancora completamente ignaro di quanto a venire, una scia di nuvoloso con manciate varie ed eventuali di tuoni, lampi e, forse, persino intemperie al di sopra di qualsiasi aspettativa al ribasso. Così entra in gioco, a gamba molto tesa, il Terzo Reich insieme alle ideologie malate che si porta dietro ed è proprio qui che l’appena dodicenne Mala è forzata al cambiamento, maturando così in fretta da bruciare le tappe obbligate per i suoi rigogliosi anni in procinto di fiorire e saltare i momenti determinanti della sua esistenza di ragazzina sul punto di germinare, arresto imposto che la costringe a prendere con gagliardia le redini della situazione nonostante la temibilità delle conseguenze di quella scelta compiuta: non si tratta più di giusto o sbagliato, non si tratta più di vivere o morire, ciò che conta è fare di tutto per rialzarsi dopo ogni perniciosa caduta, abbandonando gli scrupoli del passato in un presente dove il futuro non può essere contemplato.

Il mio ruolo da adulta non mi piaceva. Avrei tanto desiderato che mio padre riprendesse a occuparsi di noi e a sfamarci. Avrei potuto evitare gli orrori che ora mi toccava vivere, recuperare la gioia della mia infanzia spensierata in cui il mondo era un posto magnifico, pieno di persone buone come la mia famiglia. Niente sarebbe stato più bello che tornare ai giorni dei giochi e dello studio. Quanto avrei voluto ricominciare la scuola, ascoltare l’insegnante parlare di realtà sconosciute! Mi sarebbe piaciuto addirittura poter lavorare, ancor più duramente di prima, ma libera. Era forse chiedere troppo?

Cionondimeno, pure in fondo al tunnel maggiormente tenebroso si ha l’opportunità di scovare l’inequivocabile luce capace di rischiarare e fendere, grazie a un lavoro di fino e con la cautela del caso, l’oscurità imperante, una mastodontica altura tanto ripida quanto interminabile che, conquista dopo conquista a mo’ di piccoli passi in avanti per uno spirito fresco alla ricerca continua del suo posto nel mondo, si trasforma nel più innocuo e dolce dei clivi. Perciò, a seguito del mettersi volutamente in pericolo per trovare e portare a casa i generi alimentari necessari alla mera sopravvivenza, a seguito del perpetuo fuggire dai soldati pronti a ucciderla appena l’occasione propizia fosse apparsa all’orizzonte rosso sangue, a seguito del mimetizzarsi continuamente nell’unica bella vista laddove l’espressione Carpe diem si guadagna il significato per cui tutti la conoscono e la usano, la protagonista ormai donna osserva il sopraggiungere di un’era sia inedita sia desiderata, l’alba di una fratellanza tra diversi ma non troppo che, all’odio insensato, risponde a testa alta, con un sorriso, e nient’altro.

[…] non potevo fare a meno di sorridere ai militari, ai miei liberatori. Quella era una lingua che tutti comprendevano, e loro ricambiavano.