Vi narro una storia. Un giorno, stavo bazzicando su Facebook, scorrendo le varie notizie che saltavano nella Home come delle piccole cavallette, insistenti nel voler balzarmi agli occhi e farsi notare, rubando e catalizzando completamente la mia attenzione. Soprattutto se le news in questione riguardano i libri. Proprio in questo modo, sono venuta a conoscenza di questo romanzo, La trilogia dei colori di Maxence Fermine: la pagina della Bompiani aveva postato l’informazione di una nuova ristampa ed è stato immediato inserire il titolo nuovo nella wish list, comprandolo poco dopo. Con molta calma, sto sfoltendo gli acquisti, anche se a me sembra che, più vada avanti, più la situazione non migliori. Ma non divaghiamo, concentriamoci sui tre racconti, Neve, Il violino nero e L’apicoltore.
Nella prima vicenda narrata, ci troviamo in Giappone e conosciamo Yuko Akita, un giovane uomo con due passioni: l’haiku, un particolare componimento poetico proprio della sua patria che prevede tre solo versi formati rispettivamente da cinque, sette e cinque sillabe; e la neve, una precipitazione atmosferica che ha folgorato il ragazzo con la sua purezza e luminosità, tanto da spingerlo a paragonarla al suo primo grande amore. Ironia della sorte, proprio per farlo rinsavire e indurlo a scegliere tra due carriere, cioè tra l’essere monaco o soldato, il padre di Yuko, non contento dell’inclinazione di suo figlio nei confronti della poesia, lo manda per una settimana sulle montagne a pensare al suo futuro, sperando di fargli ritornare la ragione e quindi abbandonando il suo sogno. Ciò che lui non prevedeva è che il ragazzo si innamorasse perdutamente di chilometri e chilometri di manto nevoso, una bianca purezza che vale più di mille parole, tanti haiku messi in serie, le sillabe dei quali sembrano ora avere un unico obiettivo, cioè quello di celebrare l’immensa bellezza della neve. Certamente il padre non ne è entusiasta, ma quando il poeta della corte Meiji si reca alla loro dimora, perché spinto dalla fama che i versi di Yuko suscitavano nei dintorni, il genitore cambia idea, cominciando a vedere davvero il potenziale del figlio, della sua bravura, del suo talento senza eguali. Peccato che i suoi versi siano così monocromatici, tutti di quella sfumatura bianca che tanto richiama la neve, dalla quale scaturisce l’assenza completa e totale dei colori. Ma come risolvere la questione? E se il ragazzo fosse condannato a prendere le armi o a diventare un religioso, come suo padre ha sempre auspicato?
Ne Il violino nero, il protagonista è Johannes Karelsky, un violinista non solo di immensa fama ma anche di estrema bravura, oltre ogni limite possibile e inimmaginabile. Iniziato alla nobile arte della musica all’età di cinque anni, il giovanissimo bambino è rimasto folgorato dal violino e dall’armonia scaturente da esso, a causa di un zigano, uno straniero grande e grosso che, un giorno, apparso alla fontana dove Johannes soleva giocare, estrasse lo strumento dalla custodia e allietò i presenti con la musica che, seppur non degna di nota, si impresse nel cuore e nell’anima del bambino, quasi obbligandolo a provare e imparare a suonarlo. Poco tempo e già il piccolo Karelsky diventa una leggenda, così da indurre molti sovrani ad averlo nella propria corte per il privilegio di udire le note del suo magico archetto. I viaggi cominciano e così il bambino e sua madre saltano da un posto all’altro, percorrendo l’onda inarrestabile del suo successo, un’impennata stratosferica verso la cima più alta di quella catena montuosa che Johannes si era prefissato di raggiungere con una scalata nemmeno troppo tortuosa e ardua. Purtroppo, non sempre il destino ci riserva delle gioie, anzi. Dieci anni dopo questo inizio folgorante, la madre muore, lasciandolo solo con il suo amato violino: con lo spegnersi della vita di Madame Karelsky, il giovane uomo si perde in una selva oscura di devastazione e depressione interiore, una tristezza che lo costringe a deporre lo strumento tanto adorato nella custodia, dedicandosi unicamente a insegnare la nobile arte della musica, cercando di infondere in qualcun altro dei suoi discepoli la passione travolgente che ha segnato da sempre Johannes. Il tutto dura poco: la guerra arriva e, come un ariete, infrange la porta della vita del nostro esperto musicista, invitandolo senza troppi complimenti a servire la patria, diventando un soldato per caso. Cosa attenderà ora il protagonista? Morte certa o forse rinascita?
Aurélien Rochefer era diventato apicoltore per amore dell’oro. Non che fosse avido di ricchezze, né che nel raccogliere miele vedesse la minima possibilità di arricchirsi, bensì perché cercava in ogni cosa ciò che alquanto singolarmente egli chiamava l’oro della vita.
Così incomincia il terzo e ultimo racconto, L’apicoltore. Il nonno del nuovo protagonista, Léopold, si è sempre trovato in disaccordo con l’aspirazione del nipote, sottolineando quanto, lì a Langlade, nella Provenza, la lavanda fosse la vera ricchezza, l’unico mezzo per vivere agiatamente e quindi riservarsi un futuro degno di quel nome. Il ragazzo è di tutt’altro avviso e, imperterrito, vuole ad ogni costo perseguire il suo sogno, dimostrando anche all’anziano suo parente quanto si sbagli, quanto sia cieco di fronte ad altre possibilità di rendimento diverse da quel fiore bluastro che lui coltiva e cura con amore. Aurélien riesce in questo intento, ma cosa può succedere se tutto il suo patrimonio svanisce in un lampo? Rinchiudersi quasi in lutto per la propria perdita o prendere di petto la sventura e trasformarla in un nuovo inizio?
Bianco, nero e giallo: tre colori agli antipodi, distanti, quasi opposti per il rapporto brillantezza/oscurità di cui sono permeati, una triade di tonalità completamente differenti, ma che nascondono la natura di uno stesso sogno, una visione utopica della vita che Yuko, Johannes ed Aurélien condividono, un trio di uomini geograficamente lontanissimi ma emotivamente e mentalmente vicini, in simbiosi, fratelli di destino, seguaci dello stesso sentiero verso l’ignoto, verso quel futuro che potrebbe riservare loro qualsiasi risvolto esistenziale. I tre protagonisti della trilogia di Fermine, infatti, possiedono un sogno nel cassetto, una sorta di chiodo fisso, una pietra dura incastonata così saldamente nella sua montatura, tanto da non poter essere estratta, quasi fosse una nuova Spada nella Roccia per la quale, tuttavia, non esiste alcun Artù in grado di liberarla da quella prigione massiccia e ingombrante. Estirpare un’idea così ben radicata nella mente, ma soprattutto nel cuore di un soggetto, è decisamente impossibile, neanche se le persone a lei care sembrano opporsi contro la sua fantasticheria più intima, cercando scuse per farla desistere, possibili contro che bocciano uno ad uno i pro per cui il tal individuo ha faticato a scovare, neanche se la Natura sembra ribellarsi di fronte a tanta fermezza, tanta forza d’animo, tanto coraggio nel voler affrontare e sconfiggere qualsiasi chimera possa essere incontrata sulla strada, un ostacolo non da poco ma non abbastanza imponente da far demordere una persona caratterizzata dalla giusta determinazione necessaria per non fuggire, non scappare, ma continuare ad andare avanti, feriti, forse, ma più battaglieri che mai.
Tuttavia, non è tutto oro ciò che luccica. Non perdere la speranza e quindi giocare il tutto per tutto pur di vedere realizzati i propri sogni, ma anche vedersi realizzati davvero, vivere, perciò, a pieno la propria vita, è sicuramente uno scopo nobile, insigne, degno di essere prefissato, ma cela nei suoi meandri un’ombra, una macchia inequivocabile che prima sfuma ma poi cancella completamente il confine di demarcazione tra fantasia e realtà, un punto di non ritorno che trasforma il sogno in mania, estrema fissazione, stilla di una malattia che travolge qualsiasi cosa, senza fermarsi, senza sostare un attimo e pensare a ciò che si incontra sui propri passi, alle conseguenze che potrebbero scaturirne, alla realizzazione di quello che si sta facendo e provocando al prossimo, anche in maniera inconsapevole e decisamente non voluta, ma senza alcuna remora perché in linea con il proprio desiderio, le proprie convenzioni, la propria ideologia, giusta o sbagliata che sia. Solo alla fine, quando ormai è troppo tardi, quando ormai non si può più tornare indietro, neppure volendo, quando lo scacco matto ormai è stato compiuto, a quel punto si capisce di aver sbagliato, o anche solo esagerato nel seguire i propri propositi, quelli che solo in un primo momento erano da considerarsi giusti, equi, legittimi, tramutati poi in una melma che inghiotte il suo ideatore, lo amalgama a sé, lo attira e non lo lascia più andare fino a quando il conto alla rovescia è terminato. A questo punto, nonostante tutto, la felicità si può comunque acciuffare una volta per sempre, senza più lasciarla andare, senza più lasciarsi andare a quel sogno ormai compromesso? Od ormai è tutto perduto? La speranza è onnipresente, musica per le orecchie dei pensatori così idealisti, di chi crede ancora nel bicchiere mezzo pieno, aberrando quello tristemente vuoto a metà, una melodia che permea La trilogia dei colori, ma non si ferma solo a questo piccolo aspetto: essa è insita in ogni capitolo, caratterizzato da una minima lunghezza, un sospiro anelato e necessario per vivere; in ogni parola, nota sul rigo di una scrittura armoniosa e conturbante, travolgente nelle sue semplicità e leggiadria; in ogni lettera, abbellimento fondamentale per arricchire la sinfonia, per renderla unica, per imprimersi nella mente del lettore, sia durante il viaggio fenomenale che Maxence Fermine permette di intraprendere, sia dopo il suo termine, come strascico di un’eredità non scontata, riflessiva e impossibile da dimenticare, una piccola grande scoperta da serbare con una certa gelosia nel nostro piccolo cuore, colmato, come lo è ora, da una nuova ricchezza, insostituibile nella sua particolarità, essenziale nella sua sobrietà, completa nell’emotività suscitata.
«[…] In verità, il poeta, il vero poeta, possiede l’arte del funambolo. Scrivere è avanzare parola dopo parola su un filo di bellezza, il filo di una poesia, di un’opera, di una storia adagiata su carta di seta. Scrivere è avanzare passo dopo passo, pagina dopo pagina, sul cammino del libro. Il difficile non è elevarsi dal suolo e mantenersi in equilibrio sul filo del linguaggio, aiutato dal bilanciere della penna. Non è neppure andar dritto su una linea continua e talvolta interrotta da vertigini effimere quanto la cascata di una virgola o l’ostacolo di un punto. No, il difficile, per il poeta, è rimanere costantemente su quel filo che è la scrittura, vivere ogni ora della vita all’altezza del proprio sogno, non scendere mai, neppure per qualche istante, dalla corda dell’immaginazione. In verità, il difficile è diventare funambolo della parola.»
Scheda libro
Titolo: La trilogia dei colori (Neve – Il violino nero – L’apicoltore)
Autore: Maxence Fermine
Casa editrice: Bompiani
Pagine: 329
Anno di pubblicazione: 2016
Traduttore: S. C. Perroni
Genere: Narrativa contemporanea
Costo versione cartacea: 13.00 euro
Costo versione ebook: –
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