Quando un individuo abitudinario torna alla sua routine giornaliera dopo un periodo forzatamente sabbatico nel quale si è dovuto limitare al nulla cosmico perché l’universo magnanimo ha scelto di graziarlo bloccandogli qualsiasi aspirazione guizzata nel suo cervelletto pazzo, non solo per un mese ma anche per il successivo visto che Two is megl’ che one -è ovvio, riferimenti a fatti e persone reali è puramente (non) casuale: non sto parlando di me, non sto parlando del mio stop temporaneo sul fronte scrittura, non sto parlando dei due mesi di silenzio stampa concernente i racconti! Visto? Le mie robine (?) non c’entrano assolutamente nulla con questa introduzione, no no-, il mondo, grigio e tetro come, purtroppo, ha imparato a conoscerlo, si trasforma in un luogo perfetto dove, spoiler alert, gli unicorni finalmente esistono per la letizia dei loro fan accaniti e gli arcobaleni compaiono non-stop dalla mattina alla sera -non vi dico da dove spuntano perché sono una principessa (?) e la volgarità non sta bene sulla mia boccuccia di rosa (??)-.
Perciò, se vi dico che pure io, la devota ancella al dio pessimismo un po’ macabro un po’ inquietante, sono riuscita a vedere qualche giuoia negli ultimi respiri rantolanti di marzo, significa davvero che l’arrivo della primavera ha fatto rinascere anche la sottoscritta. Oggi, infatti, per la mia rubrica di scrittura creativa, Storytelling Chronicles, vi regalo una nuova storia che, oltre a rispondere con precisione millimetrica -diciamo che quantomeno ci spero perché magari mi sono rintronata nel frattempo e non c’ho capito niente- alla tematica decisa -si doveva inserire nel nostro scritto, alla pari di main characters o sul background delle vicende narrate, non importa, tre elementi specifici, un bambino, un fiore e un colore pastello, con lo scopo di richiamare la stagione entrante-, scappo dalla zona di bonaccia per continuare una piccola “fiaba” -tra virgolette perché mi sembrava un po’ dark per essere considerata una favola, genere che io associo sempre alla giovanissima età- partorita per un concorso di racconti brevi.
Qualcuno di voi conosce già cosa sto affermando -una volta letta, vorrò sapere se odierete la voce narrante come dovreste aver fatto nel primo appuntamento-, altri non ne sanno assolutamente niente -tranquilli, non c’è alcun bisogno di leggere entrambi i testi per comprendere a pieno il tutto-; in ogni caso spero davvero che da ambo i lati anche il mio Conrad possa trovare un posticino nel vostro cuore.

Creazione a cura di Tania, admin del blog My Crea Bookish Kingdom

Io non volevo farlo, giuro su Dio che non volevo farlo.
È ciò che ripeto allo sfinimento.
A tutti, a me stesso, a nessuno in particolare.
Lo ripeto, a gran voce, ma sembra siano in pochi a volermi davvero ascoltare.
Pare che l’interesse in merito sia scemato nel preciso momento in cui l’episodio, quell’episodio, si è chiuso subito dopo essersi aperto.
In un unico battito di ciglia.
In un unico sussurro del cuore.
In un unico istante di tempo.
Con un solo passo falso.
Come se non avesse avuto importanza. Per loro.
Come se lei non avesse avuto importanza. Per me.
All’epoca non sapevo cosa significasse un simile gesto.
O meglio, ero certo corrispondesse all’opposto.
Solo oggi, due anni più tardi, ho saputo la cruda e amara verità che mi ha aperto gli occhi.
Su tutti, su me stesso, su nessuno in particolare.
Solo oggi, due anni più tardi, la bocca di mia madre si è schiusa e, decisa, si è confessata alle mie giovani orecchie.
«Picchiare qualcuno, Conrad, non vuol dire amarlo», ha sussurrato cauta perché comprendeva bene l’impatto che avrebbero scatenato in me quelle sue rivelazioni. «Nonostante tutto quello che tuo padre ti ha detto e spiegato da quando sei venuto al mondo, picchiare o sbeffeggiare qualcuno non vuol dire amarlo.»
È stata la prima volta che sentivo fermezza nella sua voce.
Lei, di solito così remissiva, così docile, così muta.
Mai aveva disdegnato il silenzio in favore dell’espressione verbale.
Pensavo fosse dovuto alla sua poca socialità, un così esiguo talento nell’instaurare qualsivoglia legame umano da indurla a preferire la sicurezza della solitudine all’agio della comunione con gli altri.
Eppure, anche in quel caso, avevo sbagliato.
Completamente.
La verità è che Mollie Allen era sempre stata governata dalla paura, la medesima che aveva percepito ogni giorno nei confronti del marito.
Il reverendo di Middle Town, colui che ha saputo amarla solo magagnandola e oltraggiandone lo spirito.
Mio padre, colui che ha saputo amarmi solo insegnandomi il male e cogliendone i frutti malati.
«M-ma io… Io p-pensavo che…», ho cominciato a balbettare sconcertato, indietreggiando mentre scoprivo, a poco a poco, che le mie solide certezze avevano sempre poggiato le loro fondamenta sulla mera sabbia e ritrovavo, a poco a poco, quel difetto ignominioso nel parlare che credevo di essermi lasciato alle spalle superata la fascia dei cinque.
«Conrad, so che lei… So che Alyssa…»
«Voi sapete?!», le ho sputato addosso con una tale ferocia da farla raggelare sul posto.
Senza permetterle di procedere oltre.
Sia nel dire sia nel fare.
Dopotutto, si stava avvicinando a me qualche secondo prima, un braccio allungato in direzione di un viso che presto imparerà le gioie e i dolori della pubertà, a differenza di un altro che ha imparato troppo presto a riposare sottoterra, in fondo al mare.
Aveva cambiato idea sentendomi squarciare il silenzio della canonica con pochi vocaboli stentorei, una volta rinsavito dal trasecolamento della scoperta.

Fonte: Pixabay
Artista: Himsan

Non l’ho potuta biasimare.
Magari le ho ricordato l’animale reprobo con cui ha sempre condiviso il letto.
A tratti riesco quasi a riviverlo.
Sulla pelle di mia madre.
Negli occhi di mia madre.
Vedo i suoi gesti. Un ceffone, una spinta, una presa troppo risoluta.
Odo i suoi sermoni. Un’intimidazione, una contumelia, una risata derisoria.
Rivedo, e vorrei prendermi a pugni per la mia cecità.
Scuoto forte il capo. Che la sua anima bruci all’inferno!
«Cos’è che potete mai sapere, madre?! Come quel bastardo, anche voi non potrete di certo comprendere il vero significato dell’amore!», ho continuato a urlarle addosso, le lacrime amare che, alla stregua di alleate in battaglia, hanno principiato a sostenermi attivamente irrigandomi le gote.
Malgrado in quel frangente stessi dando la colpa a lei, diretto, e a lui, indiretto, sapevo bene che l’unico punibile di immortali e immorali atrocità è il sottoscritto.
Io, che non avevo intuito fin da subito. Stolto!
Io, che avevo creduto fin da subito. Mentecatto!
Io, che non avevo agito fin da subito. Idiota!
Io, che avevo errato fin da subito. Gonzo!
«L’ho uccisa, madre!» ho esternato alfine, indicando il petto con tutto l’astio che provo nei confronti di me stesso da quando, inavvertitamente, ho spinto giù dalla scogliera l’unico essere umano al quale avrei voluto legarmi.
«Io l’ho uccisa! Mi capite?!», ho terminato perentorio, uscendo di scena, quasi avessi il diavolo alle calcagna, per recarmi nell’unico luogo dove mi sento ancora a casa.
Sono qui, ora, e piango, tuttora.
Non ho mai smesso di farlo in questi ventiquattro mesi di sofferenze.
Nonostante abbia undici anni e sia da considerare ormai un uomo, non sono capace di darci un taglio.
È più forte di me.
Mi manca, perdiana.
Mi manca da morire, oggi più di ieri e domani più di oggi.
Ricordo perfettamente il suo viso, come se fosse il mio. Non mi serve certo questa statua di bronzo per riportare alla memoria le sue bellissime fattezze.
Alyssa era speciale.
Quando si trovava nei paraggi, non potevi fare a meno di notarla.
I capelli rossi in costante movimento.
Il sorriso gentile sempre aperto a chiunque.
Gli occhi fieri di chi si piace così com’è.
Non parlava, Alyssa, ma le difficoltà del suo difetto congenito scemavano innanzi agli abissi del suo sguardo. Quel verde acqua con riflessi del mirto si esprimeva meglio di chiunque a Middle Island.
Diretto quanto un gancio destro in pieno viso.
Sincero quanto un pugno alla bocca dello stomaco.
Per questa ragione, compresi subito che Alyssa mi odiava dal più profondo del suo cuore.
E mentre lo faceva, anche bene, io iniziavo ad amarla, anche troppo.
Ne ero contento? No.
Aveva torto? Ancora una volta, no.
Eppure, non mi importava.
Le davo addosso e mi divertivo a farlo.
Vocaboli che prima feriscono.
Vocaboli che poi maltrattano.
Vocaboli che, alla lunga, uccidono.
«Stupido, stupido, stupido!», mi tiro i capelli battendomi la fronte con i palmi delle mani, giusto per aggiungere il dolore fisico a quello mentale.

Fonte: Pixabay
Artista: jckl8888

Non mi sono mai considerato una cima, i risultati a scuola parlano piuttosto chiaro, ma speravo di essere in grado, quantomeno, di discernere il bene dal male.
«Stupido, stupido, stupido!», mi maledico di nuovo tirando su col naso senza chissà quale successo.
Ormai la mia faccia rispecchia il completo disastro che sono, neanche un miracolo del Signore può salvarmi dal mio destino segnato.
«Ecco, tieni», dice la donna che incontro ogni giorno qui, al promontorio, vicino alla casa che condivide col marito. «Ti servirà per rinfrescarti un po’.»
Sollevo lo sguardo e, attraverso il mare di lacrime ancora non scese a rigarmi le guance, intravedo, con la mano protesa verso di me, la figura di Mathilda Mason, la madre adottiva della mia Alyssa.
Sa quello che ho fatto.
Sa benissimo quello che ho fatto, a lei e al signor Gregory.
Glielo si legge in faccia.
Lo urla senza dire niente.
Eppure, malgrado ciò, la dolcezza caratteristica del suo animo buono non si smarrisce nemmeno quando si tratta di fronteggiare un mostro come me.
«Non credo di meritarmelo», esalo abbassando gli occhi al terreno scosceso, indegno di ricambiare l’occhiata senza risentimento lanciatami dalla levatrice. «Non merito niente, soprattutto da voi…»
Il nostro dialogo si prende una minuscola pausa, un attimo sospeso nel tempo che la mia interlocutrice decide di usare per sedersi accanto a me, sull’erba in mezzo alle margherite, ai piedi della sirenetta di metallo che suo marito, il fabbro, ha forgiato per commemorare la loro progenie prematuramente scomparsa.
«Conrad, chiunque si merita una gentilezza in questa vita», dice cingendomi le spalle con il braccio sinistro e stringendomi a sé.
Appoggia la guancia sulla mia testa incastrando la mia persona vicino al suo cuore.
Sorpreso da questa azione non preventivata, inizio a singhiozzare e cerco di far uscire quanto sento dentro da mesi e mesi: «Io non volevo farlo, giuro su Dio che non volevo farlo!»
«Conrad, lo so, so che…», inizia ad asserire, convinta o stanca del mio eloquio, ma non le permetto di continuare oltre.
«No! Voi non lo sapete, nessuno lo sa!»
Mi scosto per guardarla negli occhi e lasciare che la sincerità prenda finalmente possesso della mia stupida bocca.
«Tutti credono che Alyssa non mi piacesse, che la odiassi, ma non è così!» affermo con una sicurezza che non ho mai avuto in precedenza. «Certo, credevo fosse strana e lo credo anche adesso, ma essere strani non significa non venire apprezzati…»
Mathilda comincia a sorridermi, ma non voglio farmi incantare: devo finire quanto ho cominciato.
«Quel giorno ero arrabbiato, molto arrabbiato, perché non era venuta al catechismo e mi mancava tantissimo», butto fuori con tutto il fiato che ho in gola. «Non la vedevo da venerdì e ne stavo uscendo completamente pazzo!»
Non riesco più a stare fermo, non posso più stare fermo.
Quindi mi alzo e, davanti allo sguardo sempre più divertito della signora Mason, comincio a marciare.
«È vero, desideravo se ne andasse da qui.»
Indico il posto, nella vicinanza. Avanti e indietro.
«Ma è anche vero che desideravo si recasse in parrocchia.» Indico la piazza, nella lontananza. Avanti e indietro.
«Desideravo solo mi tenesse compagnia, che stessimo insieme.» Indico me stesso, nella prossimità. Avanti e indietro.
Forse scavando la fossa dove finalmente spero di riposare.
In eterno.
All’inferno.
Insieme a quel violento bastardo di mio padre. Che tu bruci per sempre, vile codardo!
«Quando è caduta all’indietro, mi sono sporto il più possibile per prenderle la mano…»

Fonte: Pixabay
Artista: 947051

Blocco il mio deambulare agitato, inchiodando i piedi al suolo con risolutezza, mentre torno con la memoria a quell’infausta domenica pomeriggio.
Simulo perfino il gesto.
Come se lei fosse ancora lì.
Davanti a me.
In bilico.
Tra la vita e la morte.
Mi volto verso la donna che con me si comporta come una madre dovrebbe fare con suo figlio, un genitore che, a conti fatti, non ho mai davvero avuto e non ho mai davvero conosciuto.
«Non è riuscita a prendere la mia mano…» biascico con un dolore sempre più acuto al petto. «Non sono stato abbastanza veloce per afferrarla e trarla in salvo…»
L’ennesima lacrima mi scende fino al mento. Ne seguono altre e, al solito, perdo il conto.
«Non sono riuscito a salvarla, signora Mason, io non sono riuscito a salvare Alyssa…»
Mathilda prende un respiro profondo.
Si alza e si avvicina in fretta a me, come se, a ragione, temesse una mia fuga repentina.
Agguanta il mio corpo.
Mi stringe in un abbraccio.
Il fiato si esaurisce, ma non glielo dico.
Forse è la volta buona che muoio?
«C’è solo un modo per rimediare, caro Conrad…»
«Uccidermi?»
La levatrice mi allontana dal suo corpo e mi fissa inorridita: «Dovrei sculacciarti per la sfrontatezza della tua risposta, impertinente che non sei altro!»
Sono stranito, sul serio. Occhio per occhio, dente per dente: giusto?
«Io sono un uomo, signora Mason…»
«Ma sentitelo, undici anni appena compiuti! Tu sei a malapena un ragazzino, figurarsi un adulto come si deve», mi accarezza la testa, dalla cima alla nuca, schiaffeggiandola bonariamente.
Non contenta, mi regala anche un ulteriore sguardo dolce che di certo non posso proprio meritarmi.
Non adesso.
Non qui.
Imbarazzato, mi divincolo dalla presa e cerco di tagliare la testa al toro: «Cosa dovrei fare per rimediare?»
«Prima di tutto, valla a cercare.»
Sgrano gli occhi e, con la balbuzie tornata a far capolino nella mia esistenza forse in netto miglioramento, ripeto: «V-valla a c-cercare?»
Mathilda annuisce e mi spinge verso la statua, un’eterna costante che, immobile, è rimasta al nostro fianco per l’intera parentesi di questo strano incontro.
«Secondo te, perché Gregory ha scritto quella frase?», domanda, indicando l’iscrizione sulla targa commemorativa.
È così pulita che brilla alla luce del sole.
Sembra davvero che il sorriso di lei non si sia mai spento, dopotutto.
La figlia del mare è tornata a casa.
Un qualche ingranaggio scatta nella mia testa e così la speranza nasce nel mio cuore.
Devo essere sincero, però: non può avere troppo senso, malgrado, per certi versi, ce l’abbia eccome.
Perché i signori Mason non hanno mai versato una lacrima?
Perché non mi odiano come dovrebbero fare?
Perché?
La risposta è tanto strana quanto ovvia.
Mi stupisco.
Mi compiaccio.
Mi incuriosisco.
Sono passati due anni dall’ultimo sorriso al quale ho permesso di farsi strada sul mio volto.
Riprendere l’abitudine non è facile, ma glielo concedo volentieri.
In fin dei conti, è per Alyssa.
È sempre e solo per lei.
Mi giro col busto verso sua madre e, fieramente, annuisco: «Sì, prima di tutto la vado a cercare.»

Fonte: Pixabay
Artista: dimitrisvetsikas1969

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Questo racconto è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice o, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale.