Secondo voi, per concludere in bellezza il mese tutt’ora vigente nell’universo infinito del lit-blogging, esiste un modo migliore di pubblicare un nuovo racconto della rubrica Storytelling Chronicles, quell’angolino inchiostrato di scrittura creativa che io e altre temerarie compagne di viaggio condividiamo periodicamente con l’obiettivo di dare libero sfogo al nostro estro di scribacchine in erba e non?
Sottolineando che, per me, la risposta alla domanda appena posta è “Direi proprio di no”, per l’appunto oggi dedico un pochino di spazio nicchioso alla mia cara amica e grande autrice Simona Busto che, dopo un mesetto di stop -la sua mancanza, qui, si è sentita parecchio!-, è tornata a farci compagnia.
Come vi avevo già annunciato domenica 27 quando pubblicai il mio testo su questi stessi schermi -lo avete già letto o ancora non avete fatto i compiti a casa? Guardate che vi vedo e vi giudico, cattivoni!-, per il nostro rendez-vous settembrino di inchiostro e china digitali ho pensato di farci cavalcare l’onda della musica per ispirarci a dovere -la scrittrice di Blaze, per esempio, ha scelto l’alternativa di Whitney Houston, I wanna dance with somebody– e produrre qualcosa di concreto.
Sebbene non fosse un compito immediato da espletare -se non mi metto a peggiorare consapevolmente la situazione, dopotutto, non sono mai contenta: penso davvero che le altre partecipanti mi abbiano lanciato macumbe per l’intera durata della sfida-, a partire dal sottostante prodotto, ho capito, per l’ennesima volta -non ne basta una, fidatevi!-, quanto le “mie” ragazze siano straordinarie. Non mi resta che augurarvi buona lettura e, se siete un tantino sensibili come la sottoscritta, vi consiglio di tenervi appresso almeno un fazzolettino di carta, per sicurezza.
Creazione a cura di Tania, admin del blog My Crea Bookish Kingdom
Non riuscivo a prendere sonno. Il comodo letto king size sembrava fatto di chiodi e spine, le lenzuola erano tentacoli pronti a strangolarmi.
Quando decisi che l’agonia era durata abbastanza mi alzai, per poi affacciarmi alla finestra.
La città, la mia città, con le sue luci e la sua chiassosa allegria, giaceva molti metri sotto di me. Potevo vederne una buona porzione dalla mia posizione privilegiata, al nono piano di un grattacielo e in cima a una delle colline che costituivano l’uptown.
Amavo quella città al punto che ero tornata appena si era liberato un posto in una delle cinque scuole locali. Poco importava che fosse quella del malfamato quartiere latino.
Molti dei bambini erano problematici e difficili da gestire, ma mi andava comunque bene così.
Ero a casa e ci ero tornata insieme a Lawrence. L’uomo della mia vita. Il mio futuro marito.
Per quasi un anno avevo potuto vantare una felicità pressoché perfetta. Vantarsi però non era mai un bene. Si attiravano le disgrazie. Almeno quella era stata la convinzione di mia nonna. Nel caso specifico aveva avuto ragione. Perché tutto era finito in una piovosa sera di novembre, quando il conducente di un furgone non aveva visto Lawrence che attraversava la strada per venire a prendermi a scuola.
Sedici mesi prima avevo perso in quella maniera orribile l’uomo che amavo più della mia stessa vita. Da allora la mia esistenza non era stata altro che solitudine.
La sentivo soprattutto quando calava il buio. Le notti trascorse sola in casa in un letto freddo erano la mia personale versione d’inferno in terra.
A me e Lawrence era sempre piaciuto ballare. Avevamo anche frequentato dei corsi di danza latinoamericana. Così alla sera ci concedevamo spesso qualche uscita. Il quartiere latino era ricco di ritrovi che ci permettevano di dar sfogo alla nostra passione. All’inizio ci avevano guardato storto, per via degli abiti troppo eleganti di Lawrence, ma poi si erano abituati a noi. Alla fine neanche i chiassosi biker del bar all’angolo della novantunesima facevano più caso a noi.
Ballavamo fino a sfinirci, poi tornavamo a casa, stanchi ma felici, a fare l’amore e riposare in vista della nostra tranquilla nuova giornata.
Mi passai una mano sugli occhi. Non sapevo neppure più cosa fosse la tranquillità. Né il riposo. E dalla morte di Lawrence non avevo più avuto rapporti intimi con nessun uomo.
Posai la fronte sul vetro freddo, poi strinsi le labbra. Avevo bisogno di qualcosa di forte. Non mi ero abbandonata al vizio dell’alcol, non sarebbe stato da me, ma c’erano momenti in cui sentivo il disperato bisogno di bere.
Sapevo di non avere nulla in casa. Gettai un’ultima occhiata carica di rimpianto al letto, poi mi diressi in bagno per prepararmi a uscire.
La città mi venne incontro dal parabrezza dell’auto, luminosa e chiassosa. Sembrava che lì non ci fosse mai tempo per il riposo. La gente pareva nata per divertirsi a ogni ora del giorno e della notte.
C’era stato un periodo in cui l’avevo adorata per questo. Quel periodo era ormai archiviato. Da sedici mesi. Non sapevo nemmeno più perché avessi deciso di restare.
Fonte: Pixabay
Artista: kjubee
Sarebbe stato facile ottenere il nullaosta per trasferirmi in un’altra scuola, in qualunque parte degli Stati Uniti. Anche nel nord, lontano dal mio dolore. Forse rimanevo per non abbandonare anche l’ultima cosa che mi restava di Lawrence: una tomba di marmo nel cimitero dell’uptown.
Quando raggiunsi il quartiere latino parcheggiai l’auto in una strada ben illuminata. Sapevo anche troppo bene cosa rischiavo a recarmi lì da sola. Quello di cui non ero certa era perché scegliessi sempre quella zona, così carica di ricordi difficili da sopportare, per le mie rare uscite serali.
Mi guardai intorno. La musica chiassosa che sentivo uscire dai numerosi locali lungo le strade intorno a me era quasi insopportabile. Sentii che un’ondata di nausea mi assaliva.
Svoltai in fretta l’angolo e m’infilai nell’unico posto dove sapevo non avrei trovato nulla di familiare ad accogliermi: il Lobo Negro, il club dei bikers.
Appena mossi qualche passo mi resi subito conto di quanto grande fosse la mia follia. Tutte le teste nel locale si erano girate di scatto verso di me, anche quelle delle donne. Alcune occhiate erano di scherno, altre cariche d’astio, altre ancora di aperta concupiscenza.
Deglutii a fatica e valutai la possibilità di voltarmi per andarmene. Scossi quasi subito la testa. No, non sarei scappata. Mostrarmi fragile in quell’ambiente sarebbe stato un tragico errore.
Avanzai fino al bancone, simulando una spavalderia che ero lontana dal provare davvero.
Il ragazzo dietro al bancone sembrava più mulatto che latino. Mi squadrò con sufficienza, poi mi rivolse un cenno del capo.
«Una vodka per favore», chiesi senza guardare nessuno dei presenti tranne il barman.
Sapevo di essere ancora al centro dell’attenzione, ma speravo che si sarebbero stufati presto di osservarmi. Le donne presenti erano vestite in maniera vistosa e provocante, oppure indossavano abiti neri con teschi e rune a far da decoro. Era più che evidente quanto fossi fuori luogo con i miei jeans e la mia maglietta rosa cipria.
Pagai la vodka e mi girai a guardare lo spazio privo di tavoli al centro del locale. Alcune ragazze si dimenavano al ritmo furioso del rock martellante che invadeva l’aria.
Non mi dava fastidio quella musica a cui non ero abituata. La trovavo gradevole perfino. Una distrazione.
Con la coda dell’occhio vidi una coppia sparire dietro i divanetti in fondo, nella parte più buia del bar.
Ecco… quello era già più sgradevole. Mi sforzai di ignorare la sensazione e ripresi a osservare le ragazze che ballavano, mentre sorseggiavo il drink quasi senza sentirne il sapore.
Forse se ne avessi trangugiati un altro paio avrei potuto decidere di lanciarmi anch’io in una danza sfrenata. Un sorriso amaro mi emerse sulle labbra a quel pensiero.
«Balli con me?»
Quelle parole mi strapparono un sussulto. Lawrence! Mi voltai di scatto, ma non era Lawrence l’uomo che mi aveva rivolto la domanda. Non avrebbe potuto essere più diverso. Eppure la sua prima frase era stata la stessa usata anni prima dal mio fidanzato.
Lo guardai a fronte aggrottata, mentre il cuore faticava a rallentare i battiti. Non era Lawrence, era un estraneo, uno sconosciuto tatuato che provava a rimorchiarmi.
Calmati, stupido cuore! Lawrence è morto. Non tornerà mai più!
Fonte: Pixabay
Artista: Pexels
L’uomo mi rivolse un sorriso di scusa da sotto la corta barba castano-rossiccia.
«Non volevo spaventarti. Tra poco Leroy metterà qualche ballata, se questo non è il tuo genere.» Nel parlare indicò le donne che si dimenavano con un gesto eloquente.
Mi irrigidii. «Non ballo con gli estranei.» Era una bugia, con Lawrence l’avevo fatto, ma adesso era tutto diverso. Di certo non mi sarei stretta a un tizio alto un metro e novanta e coperto di tatuaggi.
Lui si sedette sullo sgabello accanto al mio, come se non avesse avvertito l’ostilità nel mio tono.
«Però ballare ti piace, no?»
Di fronte alla mia occhiata interrogativa sorrise di nuovo. «Mesi fa ti vedevo spesso qui intorno, con il tuo ragazzo. Però eri sparita da parecchio e stasera sei sola, quindi ho pensato che ti facesse piacere provare un nuovo genere di musica…»
Risucchiai l’aria di fronte alla sua allusione nemmeno troppo velata.
Rimasi a osservarlo, senza replicare davanti a tanta sfrontatezza. Era bello, questo non potevo negarlo. Possedeva un genere di bellezza rude, enfatizzata dai lunghi capelli castani raccolti in una coda bassa, che insieme alla barba addolcivano i tratti un po’ spigolosi. I suoi occhi nocciola sembravano scrutarmi dentro.
Lasciai scorrere lo sguardo sul petto. Teneva il giubbotto del club sotto il braccio e la maglietta a maniche corte lasciava intravedere dallo scollo il tatuaggio del lupo nero.
Gli puntai in viso due occhi indagatori. «Non siete tutti ispanici nei Lobos?»
Sorrise. «Tu non sei di qui, vero? Altrimenti sapresti molto di più su di noi.»
Mi rabbuiai. «Sono di qui, invece. Non è affar tuo comunque. Così come immagino che il tuo club non sia affar mio.»
Trangugiai il resto della vodka e mi alzai dallo sgabello, pronta ad andarmene.
Una mano sul polso mi fermò. Quel contatto mi diede un brivido. Sapevo che avrei dovuto esserne infastidita, ma la sua pelle era calda. Era da tanto che non provavo una sensazione tanto gradevole.
Con gentile fermezza mi costrinse a tornare seduta. «Non volevo offenderti. Scusami.» Sospirò. «Il club non è una cosa per soli messicani, o per bianchi e basta. Il nostro statuto non dice niente sul colore della pelle. Io sono dentro da quando ero un ragazzino. Posso dire di essere cresciuto nell’ammirazione per le giacche con il logo del lupo.»
Mi tormentai il labbro con i denti. «Sono nata qui, ma la mia famiglia si è trasferita a New York prima che finissi il liceo. Credevo che il mio più grande desiderio fosse tornare.»
Lui mi osservava, i grandi occhi nocciola che sembravano leggermi dentro. «Immagino che non lo era alla fine.»
Mi strinsi nelle spalle.
«Allora perché resti?» insistette lui.
Fu il mio turno di sospirare. «Non lo so.»
Rimase in silenzio per un istante, poi il bel viso si aprì in un sorriso inaspettatamente luminoso. «Forse perché aspettavi che qualcuno come me t’invitasse a ballare.»
Fonte: Pixabay
Artista: JOhaza
Mi tese la mano. Senza nemmeno sapere il perché, vi posai la mia e gli permisi di trascinarmi verso lo spazio al centro del locale, mentre la musica come per magia mutava in una ballata rock.
«A proposito», mi sussurrò all’orecchio, «io sono Wade, nel caso t’interessasse saperlo.»
Annuii, mentre il suo respiro caldo sul collo mi donava un piacevole brivido. «Ember.»
Sapevo che molti occhi dovevano essersi puntati su di noi, ma in quel momento non m’importava.
I grandi palmi di Wade mi cinsero la parte bassa della schiena. I suoi occhi si allacciarono ai miei. Entrambi ci lasciammo trasportare dal ritmo delicato della ballata rock.
Per un attimo pensai a quelle mani, a quel che dovevano aver fatto. Avevano colpito qualcuno di recente? Erano sporche di sangue?
Reagii all’ansia lasciandomi catturare dal magnetismo delle sue iridi nocciola. Con ogni probabilità non era una brava persona. Con ogni probabilità non cercava altro che una facile notte di sesso.
Non m’importava in quel momento.
Stavo ballando e sentivo di nuovo il calore di un corpo maschile stretto al mio a ritmo di musica.
Era meraviglioso danzare con qualcuno. Era meraviglioso quel tocco delicato sul corpo.
Wade era meraviglioso.
Volevo solo ballare con lui.
Fonte: Pixabay
Artista: Norexy_art
Copyright © 2020 Simona Busto
Tutti i diritti riservati.
Questo racconto è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice o, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale.
28 Ottobre 2020 at 11:25
Ciao Simona!
Che bel racconto, mi è piaciuto tanto, con Ember e Wade che interpretano bene il tema della canzone. Lui è super intrigante, il bad boy, ma è Ember che secondo me merita tanto, per come sei riuscita a caratterizzarla!
Brava, leggerti è sempre un piacere!
29 Ottobre 2020 at 11:27
Ciao. Mi è piaciuto molto il tuo racconto. L’inizio sicuramente triste, cambia lentamente finendo con uno spiraglio di speranza per la protagonista.
Mi è piaciuto come si sia lasciata andare alla fine, cercando di riprendere il ritmo della sua stessa vita direi.
Complimenti per la storia, scritta bene e molto carina.
A presto.
30 Ottobre 2020 at 0:18
Bravissima, Simona! Il tuo racconto mi è davvero piaciuto e ho apprezzato anche la tua scelta di canzone. Whitney ha saputo darti l’input giusto per una storia interessante e molto bella. Lei insieme al tuo ottimo stile di scrittura siete un accoppiata vincente.
31 Ottobre 2020 at 8:06
Waaaa che bel racconto! C’è proprio tutto… dal pathos iniziale con la narrazione di un dramma terribile all’accenno di speranza nel finale. Non è facile perdere qualcuno che si ama, si crea un vuoto al centro del petto che non è possibile colmare, e tu racconti questa sensazione con parole convincenti e a tratti molto commoventi. Tuttavia, nel finale, troviamo un nuovo incontro, un pizzico di sensualità, ma soprattutto tanta voglia di ricominciare. La protagonista vive un’altalena di emozioni, ad alcune non sa neppure dare un nome, eppure è lì… ad accoglierle, consapevole che non avrà altre occasioni simili per provare a essere felice. Davvero bravissima, la sfida del mese è stata magistralmente interpretrata! Complimenti!
Ed è inutile dire che mi piacerebbe moltissimo leggere un sequel 😉
31 Ottobre 2020 at 12:04
Grazie a tutte, ragazze.
Sono davvero felice che vi sia piaciuto questo raccontino. <3
Io penso davvero di continuarli tutti, a puntate su questo splendido blog oppure, chissà, con dei romanzi che verranno.
I biker mi hanno sempre affascinato, un romanzo non è da escludere. 😀
Grazie ancora a Lara per l'ospitalità. Vedermi qui è sempre un'emozione. :-*