Visto che nei modi di fare e nel parlare con la gente posso essere facilmente considerata una principessa Disney -magari Belle per la sfrenata passione che nutro nei riguardi della lettura e per l’amore sconfinato concernente la biblioteca stupenda di Adam che, in confronto, può accompagnare solo-, appena ho visto la tematica scelta, con quasi l’unanimità dei voti, per il mese di giugno, l’ambientazione spaziale de Il mare -sono pure team montagna, raghe: le pecore nere non si smentiscono mai, vero?-, come una di quelle enormi insegne al neon spacca retine che si possono incontrare per strada durante una traversata notturna e che danno talmente fastidio da farti pensare di indossare gli occhiali da sole alla pari degli intelligentoni in metro a Milano, la domanda Che mi***ia scrivo ora? è apparsa, quasi per magia, nel mio cervellino iperattivo, bandendo da esso qualsiasi altra elucubrazione in quanto le priorità, in quell’istante, erano tutt’altre.
L’idea, però, non si è fatta attendere poi molto, soprattutto grazie alla visione di un episodio di Grey’s Anatomy che, ogni santa volta, mi prende il cuore, lo spreme fino all’osso -so che è un muscolo, l’ho scritto tanto per dire!- e lo lascia agonizzante a morire -per i più curiosi, parlo della puntata Come salvare una vita appartenente alla maledetta undicesima stagione-: perciò, se l’intuizione fa parte di voi quanto lo è di me, avrete subito capito che il mio odierno racconto per la rubrica Storytelling Chronicles è tutto fuorché felice, un piccolo scritto che, ieri notte, a un’ora improponibile per cui ero troppo stanca per lavorare al blog ma non abbastanza per andare a letto, mi ha fatto persino piangere.

Creazione a cura di Tania, admin del blog My Crea Bookish Kingdom

 

Non so da quanto tempo mi trovi qui, né tantomeno come ci sia arrivata.
Eppure, ci sono e non ho intenzione di andarmene via. Non ancora.
La natura intorno a me non sembra pensarla alla stessa maniera: se da una parte il vento forte cerca in tutti i modi di spingermi indietro da dove sono venuta, indesiderata, dall’altro lato la pioggia battente infierisce sulla mia persona per girare il coltello nella piaga, dissanguata.
C’è da chiedersi il motivo per cui mi stia incaponendo, a osservare i furiosi cavalloni sul ciglio di una scogliera a picco sul mare, ma ho così paura di ripeterlo ad alta voce che preferisco tacere, abbandonandomi alla bufera che si accanisce intorno a me. Dirlo, in fin dei conti, lo renderebbe reale, troppo reale, e io non riesco a sostenere anche un fardello del genere. Non posso, non ne ho più la forza, non la voglio più avere.
Mi hanno cresciuta con il monito che la vita non sarebbe mai stata rose e fiori, con i propri sogni concretizzati sul fondale e le grasse risate di gioia al centro della scena, però nessuno mi aveva avvisata che la realtà, a volte, tante, potesse ferire oltre le leopardiane aspettative, rovinando qualsiasi cosa, qualsiasi persona, qualsiasi legame, rovinando me.
Da bambina mi sono sempre sentita invincibile. Non c’è mai stato il tempo materiale per piangere davvero perché mamma o papà, o chi per loro, appariva magicamente nel buio della mia tristezza per baciarmi la bua e permettermi di rialzarmi col sorriso sulle labbra dopo ogni caduta.
Adesso, però, è tutto così diverso, quasi sbagliato.
Ho perso tutto e nessuno potrà convincermi del contrario.
Le nocche della mia mano destra sono diventate bianche da quanto stringo al petto la collana che loro mi hanno regalato al compleanno. Non è passato molto tempo da allora, da quel giorno maledetto di qualche mese fa che non dimenticherò mai, ma mi sembra comunque trascorsa un’eternità.

Fonte: Pixabay
Artista: Sponchia

Ero diversa allora, totalmente intraprendente e assolutamente felice. Completa.
Ero me stessa come non lo sono più ora. Rotta.
Non ho molto da dire ormai, anche se chi mi circonda afferma l’opposto. Mi dicono che fa bene, parlare, ma io ho solo da fare. Perché, alla fine, un cerchio aperto deve sempre chiudersi per trovare la pace desiderata, quell’equilibrio cosmico che non ha più e non avrà la possibilità di riavere con sé a meno di riunirsi nelle estremità.
Quando perdi qualcosa di importante, vitale, quando perdi l’anima, sebbene il cuore batta ancora e questo sia sufficiente per vivere secondo la medicina di base, sei già morta prima di esserlo davvero. Non esisti più ed è quello che sono io.
Io, che guidavo la macchina mentre la mia famiglia rideva e scherzava dopo avermi presa in giro per l’anno in più appena compiuto.
Io, che per un secondo ho perso di vista la strada perché quel fottuto telefono sintonizzato su Google Maps era caduto dal suo supporto.
Io, che mi sono chinata nonostante mio marito dicesse di non farlo, che lo avrebbe fatto lui per me.
Io, che in un attimo ho avuto un incidente stradale e per un soffio non sono morta.
Io, che lo sono comunque perché ho perso la mia metà e i miei bambini sul colpo.
Non mi sono accorta di star piangendo, come non mi sono accorta di aver chiuso gli occhi.
Non ho tempo da perdere adesso. Devo decidermi.
Guardo in basso dove l’abisso che ho dentro si specchia in quello dirimpetto.
Guardo in basso e sorrido perché li vedo, chi ho ucciso, chi ho amato, chi ho avuto la fortuna di conoscere.
Guardo in basso e la mano lascia andare la sua presa.
Sono un disastro, dentro e fuori, ma non mi importa. Non ho molto da dire ormai, ho solo da fare.
E lo faccio. Salto.

Fonte: Pixabay
Artista: Buddy_Nath

 

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Questo racconto è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice o, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale.