Quando mi sono messa a cercare ardimentose volontarie grazie cui dare il la al mio progetto condiviso Storytelling Chronicles, rubrica mensile nella quale le partecipanti, munite di un sito o di un blog dove poter pubblicare, devono scrivere un racconto a tema in base alla decisione presa nel gruppo Facebook dedicato, non avrei mai pensato di trovare un’accettazione così platealmente favorevole non solo da permettermi di stringere nuove amicizie nell’infinito etere a cui appartengo da anni e consentirmi di approfondire vecchie conoscenze con le quali collaboro spesse volte per altri progetti, ma anche da spalancare qualsiasi pertugio de La Nicchia Letteraria ad autrici di tutto rispetto grazie cui mi trasformo volentieri in una groupie fuori controllo.
Infatti, dopo la memorabilissima capatina di Debora Paolini, in risposta all’argomento di febbraio, Una storia d’amore, nella mattinata di questo ultimo venerdì del mese ospito l’eccezionale Simona Busto, poliedrica artista dei vocaboli che, con estrema facilità, è in grado di saltare dal genere romance al mondo fantasy in un battito di ciglia, inducendo il suo lettore ad amarla nell’una e nell’altra vesti senza troppa difficoltà: siete pronti a conoscere oggi la dolcissima e temeraria Mimì, scampata a un destino crudele già firmato per una novità imprevista appena sussurrata?

Creazione a cura di Tania, admin del blog My Crea Bookish Kingdom

 

Gli occhi più magnetici che abbia mai visto, grandi, nocciola, contornati da ciglia scurissime. Spiccano da sopra la mascherina da chirurgo, mentre si china su di me.
Li scorgo solo per un istante. Poi tutto diventa nero. Non sento più neppure il terrore che mi attanagliava lo stomaco. Il mio ultimo pensiero dovrebbe essere: chissà se mi sveglierò? Invece è: chissà se lo rivedrò?
Le palpebre si riaprono a fatica. Non ricordo dove mi trovi, né perché sia finita lì. Noto il volto di mia madre chino su di me. Mi sta parlando, ma le parole sono un’eco lontana che non riesco a distinguere. Sposto lo sguardo perché la luce mi dà fastidio, e lo poso sulla stanza dalle pareti bianche, asettiche. In un angolo c’è un tavolino, sovrastato da un piccolo televisore appeso al muro. Sul tavolino sono posati cesti e vasi di fiori.
C’è qualcosa che dovrei ricordare, lo so, ma è difficile concentrarmi. La testa è come avvolta nell’ovatta.
Alzo la mano, ma il braccio è pesante, c’è qualcosa che mi inchioda giù. Con gli occhi lancio una muta richiesta di soccorso a mamma, che si azzittisce di colpo.
Mi guarda, e vedo che non capisce.
«A-acqua,» imploro. La voce mi esce gracchiante, come se non la usassi da anni. Però almeno ho ricominciato a udire i suoni.
Mia madre scatta come una centometrista e torna dopo un istante con un bicchiere e una cannuccia. Mi aiuta a sollevarmi contro il cuscino. In quel momento realizzo che sono in un letto, ma non è casa mia, né quella che mamma condivide con il suo attuale compagno.

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Artista: JayMantri

L’acqua mi brucia la gola e le labbra, come se fosse acido, ma appena arriva nello stomaco provo un immediato sollievo. Ne voglio di più, invece mia madre mi toglie il bicchiere di scatto.
«Piano, Mimì, potrebbe farti male.»
Quel nomignolo sembra riportare indietro una parte dei miei ricordi assopiti. All’improvviso rammento due splendidi occhi castani, che mi fissano da sopra una mascherina. E so con la massima certezza che io, Melissa, detta Mimì, sono in un letto d’ospedale, operata con una certa urgenza perché l’intervento chirurgico era la sola possibilità di salvarmi la vita. O forse no?
«Com’è andata, mamma?» chiedo con una voce che ancora fatico a riconoscere come la mia.
Lei mi sorride, gli occhi che le si riempiono di lacrime. «L’intervento è stato un successo. Il medico è stato bravissimo. Mi sono spaventata quando ho visto che era così giovane, invece guardati… Dice che al novanta per cento sei ormai fuori pericolo. Quella brutta cosa che avevi al cuore dovrebbe essere risolta ormai.»
Sorrido, anche se ho la testa troppo pesante per realizzare appieno cosa significhino davvero le sue parole.
«Quindi non morirò,» riassumo, incredula, mentre mi abbandono contro il cuscino. Mi ero quasi abituata all’idea che la mia vita fosse alla fine. Nell’ultima settimana, mentre aspettavo che i medici esaurissero la lista dei casi più disperati del mio, ho fatto piazza pulita dei falsi amici e dei corteggiatori con cui non avevo nulla da condividere.
Mi sono scoperta un po’ più sola di quanto mi aspettassi, ma non così disperata come avrei potuto immaginare.
L’idea della morte mi terrorizzava, questo è chiaro, ma sentivo di aver vissuto una bella vita per i ventotto anni che era durata.

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Forse mi sono semplicemente rassegnata, e adesso è difficile riprendere le fila di un’esistenza che non è più al capolinea e mi può offrire ancora lunghi anni di opportunità.
«Papà?» chiedo senza nutrire grandi speranze.
Il suo sguardo si vela di tristezza. «Verrà il prima possibile. Sai com’è il suo lavoro… e poi c’è la distanza di mezzo.»
Non riesco a trattenere una smorfia. La sua unica figlia è stata a un passo dalla morte e lui non è riuscito a mettere il sedere su un aereo che da Londra lo riportasse in Italia.
Un altro ramo secco. Forse avrei dovuto reciderlo in via definitiva molti anni fa.
Sento bussare alla porta e mamma che dice prontamente: «Avanti!»
Corrugo la fronte. Non provo dolore, ma di certo non sono dell’umore adatto a ricevere visite.
Ho un sussulto quando vedo la figura avvolta nel camice verde che avanza nella stanza.
«Buongiorno, dottore!» saluta mia madre in tono allegro e persino un po’ civettuolo.
Lui si avvicina al letto. Trattengo il fiato finché non gli vedo gli occhi. Occhi grandi, nocciola, contornati da ciglia scurissime. Gli occhi più magnetici che abbia mai visto.
Li riconoscerei tra mille, anche se il nostro contatto visivo è durato pochi istanti. Il tempo che facesse effetto l’anestesia.

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«Allora, Melissa, come stai? Senti molto dolore?» Anche la sua voce è sexy, come tutto il suo aspetto, dalla mascella virile ai capelli neri non più imprigionati dalla cuffia. Perfino la familiarità con cui mi si rivolge, dandomi del tu, è sensuale.
Scuoto il capo. Sono in soggezione, ma forse è la consapevolezza di avere di fronte l’uomo che mi ha appena salvato la vita.
Deve avere meno di quarant’anni. Non credevo che esistessero chirurghi tanto giovani. Il suo sorriso è un lampo di denti bianchissimi che spiccano contro la carnagione scura.
All’improvviso vorrei avere una spazzola e magari anche la trousse dei trucchi. Per quanto ridicolo possa essere nella mia situazione, detesto l’idea che mi veda trasandata e in disordine, con i capelli sparsi sul cuscino e le labbra secche che sembrano sul punto di sgretolarsi.
«Mi fa piacere,» prosegue lui, con lo stesso tono cortese, quasi dolce. «Nei prossimi giorni un po’ di dolore ci sarà senz’altro, ma ti terremo sotto analgesico finché non sarà sopportabile. Se hai bisogno chiama, le infermiere qui sono tutte molto gentili.»
Annuisco, poi tento di superare il nodo che mi stringe la gola per tirar fuori le parole: «Grazie, dottore.»
Lui ridacchia. «Signor dottore, prego.» Inarca le sopracciglia. «Sto scherzando, nessuno mi chiama così. Massimo va benissimo. È quello il mio nome, dopotutto.»
Annuisco di nuovo. Non so quel che provo. Fascinazione? Soggezione? Diffidenza? Fastidio? Immagino che sia la situazione, ma avverto un miscuglio di emozioni indefinibile, che mi trasmette uno strano senso d’ansia.
Distolgo lo sguardo. So di essere scortese, ingrata perfino, ma c’è qualcosa che non va. Qualcosa che non va in me. E ancora non sono in grado di affrontarla.
Dopo un attimo di silenzio imbarazzato, lo sento muoversi.

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Artista: geralt

Si rivolge a mia madre: «Allora arrivederci, signora. Tornerò a controllare la situazione ogni giorno, ma sembra che tutto sia andato per il meglio. Ho buone speranze di poterla dimettere tra una decina di giorni.»
Continuo a fissare con ostinazione la parete bianca. Non voglio vederlo. Non voglio vedere nessuno.
Anche quando la porta si richiude, continuo a essere tesa come una corda di violino.
Mamma cerca di attirare la mia attenzione in ogni maniera, allora chiudo gli occhi e fingo di dormire. La sento emettere un sospiro frustrato, poi accende la televisione, con il volume al minimo.
Dopo un po’ la finzione diventa realtà, e scivolo di nuovo in un sonno privo di sogni.
Il giovane chirurgo è di parola. Viene ogni giorno a verificare le mie condizioni. Io tendo ad accoglierlo con fredda cortesia. Non so perché mi comporti così. Gli devo tutto, forse troppo. Non mi piace avere un debito che non posso ripagare: sono abituata a cavarmela da sola.
Quel pomeriggio il mio umore è pessimo, il suo ottimo. Mamma non è ancora arrivata e io non sono neppure in grado di lavarmi senza il suo aiuto. Detesto quel senso di totale impotenza.
Massimo osserva i dati sulla cartella che stringe tra le mani, poi sorride soddisfatto. «Sono perfetti. Tra poco ti rimandiamo a casa, Mimì.»
La mia testa scatta di lato, lo fulmino con lo sguardo, mentre mi coglie un capogiro per il movimento troppo brusco. «Non chiamarmi così,» sibilo. «Nessuno ne ha il diritto, tranne mamma.»
Sbatte le palpebre, mentre la sorpresa gli si dipinge sui bei lineamenti. «Scusami.»
«Nessuno può farlo,» insisto, «solo i miei genitori.» Quel nomignolo è solo nostro, l’aveva inventato papà, quando ancora eravamo felici, tutti insieme. Lo stesso papà che ora non è nemmeno venuto a controllare se davvero fossi ancora viva. Un singhiozzo mi sale alla gola, lo controllo a metà.

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Artista: Victoria_Borodinova

Lo sguardo di Massimo si vela di preoccupazione, mentre avvicina la sedia al mio letto e si siede sul bordo, teso verso di me. «Melissa, capisco bene che tu abbia passato un periodo difficile. Nessuno dovrebbe trovarsi sospeso tra la vita e la morte, certo non alla tua età. So che non è giusto. Ma ora è passata, sei stata molto brava.»
Scuoto il capo, c’è qualcosa che non dovrebbe esserci, qualcosa di sbagliato. «Io non ho fatto niente. Sono semplicemente rimasta nelle tue mani. Non potevo fare nulla. Mi sono di nuovo dovuta affidare a qualcun altro. Avevo giurato di non farlo mai più.» Mai più! Non dopo papà, non dopo l’orrenda storia del suo tradimento, che ero stata io a scoprire, con i miei stessi occhi.
«Melissa…» Il mio nome suona dolcissimo sulle sue labbra. Allunga una mano a sfiorarmi il braccio.
Di certo mi aveva già toccato, quand’ero incosciente. È stato addirittura all’interno del mio corpo, anche se non certo in maniera sensuale. Eppure per qualche motivo quel contatto mi scuote. Qualcosa si rompe dentro di me. Va in frantumi.
Le lacrime salgono inarrestabili agli occhi. Cerco di trattenerle, con tutte le mie forze, ma è inutile. I singhiozzi le seguono a ruota, squassanti.
Poi succede quello che mai mi sarei aspettata, ciò che fa crollare ogni residua barriera già in rovina. Si sporge sul letto e mi stringe tra le braccia. È una stretta delicata, confortante. Mi trasmette un calore insolito, a cui non sono abituata, non quando proviene da un uomo. La sensazione di disagio dura solo un istante, poi provo un enorme sollievo, mentre le lacrime e i singhiozzi esplodono. È come se mi stessi liberando di tutto quello che ho trattenuto in me per tanto, troppo tempo. Sono un fiume in piena che si riversa sul petto ampio di quello sconosciuto a cui devo la vita.

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«Non potevo… da sola, stavolta non riuscivo ad affrontarlo. Eppure ero sola. C’è sempre stata solo mamma, ma lei non capisce, non mi sa leggere l’anima. Ero sola, come sempre, ma questa volta non ce la facevo…» Parole spezzate e ripetitive fino all’ossessione, che mi escono tra un singulto e l’altro. Lo sento annuire, percepisco il movimento dal mento appoggiato sulla mia nuca. Mi aggrappo a lui come se fossi nel bel mezzo di un naufragio, e lui fosse la mia sola ancora di salvezza.
Non dovrei farlo, ne sono più che consapevole, ma non riesco a impedirmelo.
«Non sei sola, Mimì. Non devi esserlo per forza, se non vuoi.» Mi ha chiamato di nuovo con quel nomignolo che non tollero sentire dalle labbra di nessuno. Eppure stavolta non m’importa. Va bene così. Lascio che mi consoli e butto fuori tutto il dolore a lungo trattenuto.
Io voglio vivere, lo volevo quando mi hanno detto della malattia, così come lo voglio ora. Vorrei una vita piena, intensa, quel genere di vita che non mi sono mai concessa da quando ho trovato mio padre con i pantaloni slacciati davanti alla sua segretaria.
Da quel giorno il mio atteggiamento nei confronti di Massimo muta in maniera radicale. Vinco l’imbarazzo iniziale e aspetto le sue visite con ansia, come un appuntamento fisso.
Lui è cortese, sorridente, umano, ma non ripete più quel che ha fatto il giorno in cui mi ha abbracciato. È come se mi tenesse a distanza. Mi manca il calore del suo corpo stretto al mio.
Sto meglio, molto meglio, ma provo un grande senso di perdita. Mi rendo conto che avergli mostrato la mia fragilità in quella maniera è stato un tragico errore. Forse ora lui mi vede come una bambina spaventata, non come la donna che vorrei apparire.

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Quando arriva il momento di tornare a casa provo sollievo misto a tristezza. Mentre mi vesto con cura e finalmente scopro i miei capelli di nuovo lucidi e in ordine, penso che non lo rivedrò più. Un nodo mi stringe la gola.
In venti giorni mi sono innamorata di uno sconosciuto? Possibile?
Mi scrollo di dosso quei sentimenti negativi e cerco di focalizzarmi su quello che mi sono ripromessa. Non fuggirò più davanti alla vita, è troppo breve perché mi possa permettere di perderne altri pezzi.
La dottoressa mi visita in fretta, per scrupolo, poi mi rivolge un sorriso cortese e compila la lettera di dimissioni, prima di stamparla e firmarla.
Mamma mi attende in sala d’aspetto. Sono ancora un po’ instabile sulle gambe.
Non potrò nemmeno salutarlo. Quel pensiero mi attraversa la mente in un flash doloroso. Lo scaccio con rabbia.
Vedo già i capelli biondi di mia madre che sbucano da dietro la poltroncina. Mi dà la schiena. Allungo il passo per far prima. Via da qui, via dall’incubo.
«Mimì.» La sua voce mi provoca un sussulto. È alle mie spalle, ma non ho bisogno di vederlo. Riconoscerei quel tono un po’ roco tra mille.
Mi giro piano, timorosa che sia solo un brutto scherzo della mia immaginazione. Invece Massimo è lì, ritto a pochi passi da me, gli immensi occhi nocciola fissi sulla mia persona smagrita dall’intervento e dalla lunga permanenza in ospedale.
Avanza di qualche passo e mi toglie dalle mani la lettera di dimissioni. La scorre in fretta, poi sorride nel restituirmela.

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«Quindi è andata. Non sei più una mia paziente.»
Una lacrima traditrice mi riga la guancia. Lui allarga gli occhi e si precipita ad asciugarla con il pollice.
«Ehi, ehi! Te ne vai a casa. È una splendida notizia. Sei fuori pericolo. E… non sei più una mia paziente.»
È la seconda volta che lo ripete. Non capisco perché continui a sottolineare quel particolare.
Il suo sorriso si allarga. «Non trovi anche tu che questa sia una notizia meravigliosa? Per me lo è, visto che finalmente posso fare questo.»
Prende una penna e un foglietto dal taschino del camice. Scarabocchia qualcosa in fretta, poi me lo porge. C’è una luce nel suo sguardo.
«Posso lasciarti il mio numero e dirti di chiamarmi, se ti va. Perché io ho una gran voglia di vederti fuori da questo posto. Non potevo nemmeno toccarti finché eri qui dentro, se non per motivi strettamente medici. Invece morivo dalla voglia di avere un contatto… diverso.»
Mi stringe le mani mentre vi posa il biglietto su cui ha scarabocchiato il suo numero, gli occhi fissi nei miei, luminosi, intensi. Sento il calore del suo tocco. «Spero davvero che anche per te sia così.»
Sorrido, anche se fatico a trattenere il magone.
Quella che doveva essere la mia fine si è trasformata in un nuovo inizio. E non vedo l’ora che cominci davvero.

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Copyright © 2020 Simona Busto
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Questo racconto è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice o, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale.