All’inizio di quest’anno, quando la mia collega Deb del rifugio letterario Leggendo Romance e non solo mi aveva illustrato l’idea alla base della Creativity Blogger Week, non avrei mai pensato di arrivare a oggi con all’attivo tutti gli appuntamenti del suddetto rendez-vous mensile, un eccezionale attonimento per la sottoscritta che, forse bramando troppo dalla propria persona, crede sempre di deludere tutti quanti al minimo cambio di rotta.
Eppure, con un sorriso genuino sulle labbra, vi mostro il mio presente contributo, una versione non troppo sistemata di una storia inquietante che elaborai anni fa in occasione di una challenge a cui ho partecipato per mettermi stranamente in gioco.

Creazione a cura di Federica, admin del blog On Rainy Days

Quando frequentavo la prima media e ancora non conoscevo del tutto la malignità dei miei compagni di classe, durante un arco temporale di qualche mese, non chiedetemi il motivo perché non saprei rispondervi, ogni notte mi ritrovavo a fare sempre lo stesso incubo, un sogno abbastanza inquietante e vivido in cui la sottoscritta si riscopriva morta e (quasi) sepolta. Tenendo a mente il topic del mese di ottobre, un classico Che paura! in grado di adeguarsi perfettamente alla contingenza halloweeniana in caduta libera dopodomani, l’odierno pomeriggio ho deciso di proporvi, quale espressione della mia attitudine creativa a questa rubrica, la trasposizione romanzata della suddetta ossessione attanagliante la mia giovane vita, un mondo parallelo dove nemmeno nei ricordi le domande trovano una risposta concreta.

Può un risveglio qualunque in un giorno altrettanto qualunque rivelarsi uno shock, soprattutto se i timori di sempre paiono essersi concretizzati davanti ai propri occhi innocenti?
Nonostante l’alta probabilità di essere aperta all’immaginazione più fantasiosa, anche la classica ragazzina con un forte desiderio di indipendenza dai suoi genitori e gli emblematici pensieri della sua età agli inizi comincerebbe a nutrire delle perplessità su ciò che allo sbando sta malauguratamente vivendo: realtà o finzione, è proprio questo il problema.

Oscurità e silenzio.
Era comprensibile dopotutto.
Si era appena svegliata e quindi nient’altro la circondava in quel momento.
Si rigirò nel letto, sbuffando al solo pensiero che anche quel giorno avrebbe dovuto studiare. Adorava imparare, aprire la propria mente al nuovo, lasciarsi immergere dalle mille conoscenze di cui ancora era all’oscuro, ma purtroppo l’apprendimento obbligato non rientrava nelle sue passioni.
Le tenebre della camera uscirono di scena, lasciando tutta la ribalta alla luce soffusa del mattino, che entrava invadente dalla finestra spalancata da poco.
Dopo aver aperto le ante e i vetri, si era messa a guardar fuori, a scandagliare l’esterno in cerca di qualcosa, un piccolo particolare che sancisse la fioritura del nuovo giorno e quindi l’ennesima rinascita di ogni essere umano sulla terra.
Tuttavia, il segno che si aspettava di scorgere, anche solo in lontananza, faticava ad arrivare: quel mattino, il silenzio regnava ovunque, tributo speciale al ghigno crudele della tetraggine circostante.

Fonte: Pixabay

Serrò la finestra e, dopo essersi cambiata nonché resa presentabile, decise di scendere le scale, dirigendosi verso la sala da pranzo per la colazione.
Ancora una volta, però, la mancanza di rumore regnava sovrana: dove erano tutti quanti?
Non sembrava affatto di vivere in una casa con altre tre persone. In quel momento, nemmeno il legno, materiale che riempiva quell’enorme dimora da cima a fondo, entrava in scena con il suo solito scricchiolio che, soprattutto durante la notte, sinistramente inquietava, portando le persone, ancora sveglie e intente a leggere un buon libro, a chiedersi se fossero davvero sole.
Per questo, decise che era giunto il momento della ricerca. Non voleva restarsene con le mani in mano, senza manco sincerarsi dell’effettiva assenza dei genitori e del fratello. E poi, come spesso accadeva, voleva davvero uscire da quella casa, così vuota della fisicità degli individui, ma così piena dei mille pensieri che turbinavano a velocità estrema nella sua testa e che sembravano volersene uscire, a spasso, finalmente a briglia sciolta, magari portandola a quella sorta di infelicità e pessimismo caratteristica della sua indole tormentata.
Quanti secondi erano passati?
Non se lo ricordava, eppure furono sufficienti affinché si ritrovasse fuori, sul marciapiede di fronte al cancellino. Si guardò intorno, incredula, spaesata: cosa le stava succedendo? Si toccò il volto con le mani sudaticce, come per sincerarsi che effettivamente il suo corpo, tangibile, fosse lì, con i piedi ben piantati sul cemento che, ormai scrostato dal tempo, le era così famigliare e così estraneo insieme.

Fonte: Pixabay

Fuori, però, era anche peggio, non un suono lì, niente. Non era quella sorta di quiete che si auspica di raggiungere per allontanarsi definitivamente dalle fitte e subdole trame della preoccupazione, ma si poteva ricondurre all’atmosfera lugubre di mutismo, all’immobilità, alla morte della loquacità, del comunicare con gli altri. La morte di ciò che ci rende vivi, in comunione con il resto del mondo. Era il nulla.
Dei brividi la pervasero, effetti collaterali delle riflessioni macabre che, seppur la inquietassero nel profondo, quasi fossero una premonizione di qualche catastrofe che di lì a poco sarebbe accaduta, non riusciva a sedare, soffocare, evitare: le urla nella testa non le lasciavano un attimo di respiro.
Era meglio muoversi. Camminare avrebbe giovato a entrambe le sue saluti, fisica e psicologica.
O almeno così credeva, sperava.
Avanzò verso l’incrocio dove la via chiusa della sua abitazione incontrava quella principale, solitamente non troppo trafficata, il più delle volte percorsa dai trattori che si dirigevano con il loro carico, balle di fieno concime o simili, verso la campagna, verso i terreni agricoli appena fuori il suo paese, quello dove tutti muoiono, o così almeno significava il suo nome.
Si fermò sul marciapiede che costeggiava la casa dei vicini, guardandosi intorno, in cerca di quella famosa prova che dalla finestra di camera sua voleva ad ogni costo trovare.

Fonte: Pixabay

Un qualche segno di vita, chiaro.
Perché non riusciva a scorgere nulla? Altra stranezza. Sembrava che la sua vista fosse in qualche modo bloccata. Una sorta di fermo aleggiava su di lei, una mastodontica ostruzione che non voleva lasciarla andare: poteva essere per quella casa, la sua casa?
Sembravano solo sciocchezze. E se fosse stato vero? Perché non provare ad allontanarsi?
Decise quindi di prendere la strada di fronte alla sua via e, un passo dopo l’altro, ancora una volta si ritrovò all’altro capo della strada, dinanzi all’ennesimo incrocio. Il cartello rosso di “STOP” sembrava guardarla, inespressivo: quelle lettere bianche, ancora più in neretto del solito, parevano brillare nella fiamma dei loro inferi, intenzionate ad ammonirla a fermarsi, urlandole contro, come se, se solo avesse tentato di attraversare, quello sarebbe sicuramente stato l’ultimo incrocio che avrebbe battuto. L’ultimo incrocio di quella vita non vita, di quell’esistenza nel nulla più assoluto.
Molto spesso le capitava di rifuggire il contatto visivo con gli sconosciuti, forse per defilarsi, per mantenere un “basso profilo”, cercando quindi di non farsi notare in alcun modo, ma non credeva possibile si potesse sentire intimorita anche da un cartello stradale, come se lui, un oggetto inanimato, fosse una persona in carne e ossa.
Meglio proseguire, quindi.
Sicuramente.

Fonte: Pixabay

Prese la via a destra, costeggiando le case che conosceva bene. Aveva percorso quella strada parecchie volte, da tempo ormai: mancava una dimora da oltrepassare per vedere il condominio dove aveva vissuto con la sua famiglia. Ormai abituata alla velocità che le sue gambe sembravano aver ereditato da quella mattina, si ritrovò immantinente di fronte al palazzo di tre appartamenti dove aveva passato la sua infanzia.
Molti anni prima, aveva abitato, proprio lì, al secondo piano. Si ricordava di quanto da piccola avesse paura a uscire sul balcone; tant’è vero che, quando le capitava di voler passare il pomeriggio sul terrazzino a giocare con le sue Barbie, gattonava per poter arrivare alla ringhiera, come se solo avanzando in quella maniera sarebbe sopravvissuta alla trappola mortale del terrazzino. Una volta raggiunto quel limite di metallo, infilava le gambine tra una sbarra e l’altra, facendole poi dondolare, dimenticando completamente il mondo esterno, le sue bambole, i compiti da fare, focalizzandosi solo sul panorama che poteva vedere da lì, l’orizzonte dove si stagliava il campanile della chiesa, quasi volesse farsi notare per forza, quasi stesse dicendo «Ehi, ci sono anche io qui!».
Era uno dei tanti ricordi che aveva di quella casa, uno dei tanti che la faceva ancora ridacchiare.
Perché, tuttavia, il passato le era riaffiorato alla mente?
Perché proprio ora?
Semplice reminiscenza o desiderio spasmodico di pensare ad altro, di riflettere su qualcosa che non fosse la strana realtà che la circondava?
Chiuse gli occhi, strofinandoli con forza con la mano destra, come se, in questo modo, potesse cancellare il tratto indelebile delle sue preoccupazioni.

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Prese un profondo respiro, incamerando più aria possibile, cercando, quantomeno, di calmarsi e di evitare altri pensieri negativi da sommare alla già ben fornita miriade che la attanagliava.
Poteva considerarsi tormentata?
Poteva sentirsi oppressa da quella sensazione di malessere di cui ogni cosa intorno a lei sembrava essere impregnata?
Poteva sentirsi intimorita da un’atmosfera?
Poteva o forse doveva?
Con lo sguardo bloccato a scrutare con cautela intorno a sé, per paura forse che qualcosa l’avrebbe assaltata, chissà come e chissà perché, cominciò a indietreggiare, con calma, facendo finta di niente, imponendosi di essere tranquilla, rilassata, cercando di dissimulare la sua agitazione e il tremore che ancora una volta stavano via via aumentando in lei.
Nessuna mossa azzardata, continuava a dirsi mentalmente, cercando di alzare la voce per sovrastare le grida nella sua testa.
Pochi altri passi, quanti bastavano, e lei si voltò dalla parte opposta da dove era venuta, iniziando una corsa a perdifiato, aumentando sempre più l’andatura, come se volesse fuggire da quelle ombre, come se volesse scappare dalla casa che una volta era la sua, come se stesse tentando in tutti i modi di andarsene da quella realtà.
Voleva fuggire, nient’altro.

Fonte: Pixabay

Innanzi all’ennesimo incrocio, niente era cambiato, a parte, ovviamente, l’atmosfera silenziosa che lo popolava.
Dove poteva rifugiarsi, sentendosi al sicuro anche solo per qualche istante, per qualche minuto, prezioso e quasi vitale?
Dove poteva evitare l’attenzione vorace del mostro quasi incombente che la seguiva nascondendosi nelle sue stesse ombre?
Guardò a destra: sapeva dove portava quella strada, sapeva cosa c’era dopo quella curva dolce, sapeva cosa c’era dopo la piccola rotonda che seguiva la leggera ansa.
Sapeva finalmente dove recarsi.
Quasi come un assetato che, trovata l’oasi, si lanci alla furiosa e pazza ricerca dell’agognata acqua, proprio così lei camminò per quella strada, con un veloce incedere, sicura di sé per la prima volta quel giorno, impavida, pronta a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo, con la testa alta senza fuggire dallo sguardo della realtà, senza nascondersi dagli occhi di niente, senza provare più paura.
Fino a quando non varcò la soglia di quel luogo, la cui sacralità veniva emanata da ogni singolo oggetto presente in quel posto, non esitò un momento e non esitò quando si inoltrò in quella foresta di pietre, lapidi che si innalzavano, per quanto potevano, verso il cielo, verso il Padre e il Suo abbraccio eterno d’amore.
Era un sospiro di sollievo quello?
Decisamente.

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Finalmente si trovava al cimitero, l’unico luogo in cui il silenzio era d’obbligo, in cui il nulla non la intimoriva, in cui non si sentiva sola perché sapeva che da lassù Qualcuno la guardava e vegliava su di lei, Qualcuno che non l’avrebbe mai lasciata, né ora né mai.
Si era fermata, senza rendersi pienamente conto di essersi bloccata al centro del passaggio, costeggiato sia a destra che a sinistra dalle tombe: mentre riprese a camminare, le guardò, una ad una, soffermandosi sulle fotografie dei defunti, tentando di immaginarli ancora vivi, intorno a lei, per non sentirsi fuori dal mondo, ma dentro al contempo, per non farsi annientare dall’angoscia della solitudine, per sentirsi ancora viva in una realtà che ormai, senza ombra di dubbio, era morta, rinsecchita su se stessa, distrutta.
Quasi come sentisse la sua presenza, si fermò: la tomba di R non tardò a farsi riconoscere.
Non l’aveva mai conosciuta.
Non aveva nemmeno pianto per lei. Dopotutto non ne aveva avuto il tempo.
Non era mai stata molto toccata dalla sua morte e questo la faceva sentire un mostro, al pari di quello che sembrava celarsi così bene nei meandri di quella vita non più viva.
Molto spesso, forse fin troppo, a causa delle sue paturnie magari infondate ma che erano per il suo cuore una zavorra immane, aveva sentito il bisogno di scambiare la sua esistenza con quella di R, aveva percepito una sorta di febbrile desiderio di provare cosa lei avesse provato, di capire cosa significasse, di permetterle di vivere al suo posto.
Forse era questa la dimostrazione che dopotutto non era un mostro?
Era a questo che portava una riflessione simile?
Sì, era così. Per lei era meglio così. Vederla in questa ottica la aiutava davvero.

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Guardò in maniera alquanto fugace verso la piccola lapide di R, ma, prima di arrivarci, un’altra stele funeraria la affascinò, esattamente alla destra di quella della sorella.
Curioso che non avesse l’immagine del defunto e curioso che non vi fossero neanche le date di nascita e di morte.
Nemmeno un nome.
Niente.
Ancora una volta, il nulla più assoluto.
Ispezionò con lo sguardo la tomba, soffermandosi sulla sua interezza.
Percepì una sensazione di inquietudine.
Qualcosa non andava in tutto ciò.
Si sarebbe dovuta accorgere prima che quel posto, dove una persona deceduta, o comunque il suo corpo fisico, avrebbe riposato per l’eternità, era aperto.
Non avevano ancora provveduto a seppellire chi era andato a miglior vita?
Era stata una svista?
Una dimenticanza?
Controllò a destra e a sinistra: non c’era nessuno nei paraggi.
Quindi, perché non dare un’innocente occhiata in quell’antro oscuro, evitando magari di cascarci dentro?
In fin dei conti, la curiosità è donna, ma è anche maledettamente crudele.
Piccoli passi le servirono per arrivare al bordo dell’entrata spettrale, tutt’altro che accogliente, ma adibita comunque a quell’ospitalità tipica di un luogo famigliare e confortevole.
Cosa si aspettava di trovare lì dentro? Forse questa volta aveva pregato, supplicato, implorato di trovare il nulla, che sembrava provare piacere nell’abitare ogni cosa in quel piccolo paese, solitamente così vitale e rumoroso.
Quella spelonca lugubre ospitava già una bara, aperta, quasi volesse prendersi gioco di lei, solo di lei. Quel viso che tanto odiava e di cui avrebbe voluto liberarsi, quei capelli biondi che qualcuno si era ostinato a dire fossero castano chiari e quegli occhi serrati che lei sapeva fossero azzurri, tendenti al verde.

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Era lei.
Senz’ombra di dubbio.
I pensieri nella sua testa si azzerarono, finalmente, come richiamati all’ordine da chissà quale forza oscura. Le domande che ora sorgevano spontanee erano così potenti da coprire qualsiasi altra elucubrazione, qualsiasi altra riflessione che prima sembrava essere vitale, importante, e ora invece risultava solamente inopportuna, sconveniente.
Che era successo?
Come era morta?
Se il suo corpo era nella bara, lei cosa era esattamente?
E come mai non c’era nessuno? Dove erano tutti?
Quesiti questi a cui voleva rispondere, interrogazioni che si sentiva in dovere di risolvere, forse per ritrovare la pace interiore. Non contava il motivo, contava solo quale fosse il suo desiderio in quell’istante.
Scrutava ancora quel corpo immobile, quasi sperasse di sentirsi dare le spiegazioni che necessitava, che voleva arditamente raggiungere. Il cadavere continuava a osservarla, rispondendo al suo sguardo con le palpebre serrate; la fissava, impunemente, troppo a lungo da riuscire a sopportarlo, ma, nonostante ciò, lei non riusciva ad arretrare ed evitare così quel contatto visivo, diverso dal solito, innaturale, irreale. Smise quasi di respirare, come se volesse provare la stessa sensazione di vita di quel corpo non ancora in decomposizione, il suo non più corpo.
Pian piano, uno strano brivido la attanagliò, simile a uno di quelli che l’aveva percorsa appena fuori dalla sua casa. Non sapeva però la ragione di quel tremore, di quel sudore freddo che imperlava la sua colonna vertebrale.
Era sola, dopotutto.
Lì non c’era nessuno, a parte lei.
Giusto?

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Si guardò ancora intorno per averne la certezza, cercando di scorgere un altro individuo, una persona la cui presenza non voluta e indesiderata inducesse il suo corpo a quella strana reazione.
Riportò allora lo sguardo sul cadavere.
Il cuore, cominciata una corsa impazzita, con i battiti ormai frenetici, e il respiro, divenutole corto, erano la più giusta reazione a ciò che stava vedendo, o meglio non vedendo.
Il suo corpo era sparito.
Freneticamente, girò su se stessa in cerca di una traccia della sua gemella, qualcosa che provasse la sua fuga tangibile dalla tomba.
Assolutamente niente.
Ancora il nulla.
Imponendosi di non avvicinarsi alla fossa che sembrava chiamarla a sé, come se il cadavere se ne fosse andato solo per lasciarle lo spazio, e obbligandosi a non attendere oltre, non esitò a indietreggiare, celermente, distogliendo lo sguardo, fuggendo da quella vista o forse cercando di scappare dalla situazione così irreale che si stava verificando intorno a lei.
Cosa avrebbe fatto ora?
Come avrebbe fatto ora?
Non lo sapeva, non lo sapevo, e dopotutto questo non sarebbe il luogo adatto, poiché quello era il preludio di un altro racconto, l’inizio di una storia che non è questa.

Fonte: Pixabay

 

 

 

Creazione a cura di Federica, admin del blog On Rainy Days