Se vi state chiedendo come si può iniziare alla grande un martedì qualsiasi, io vi rispondo mostrandovi una tappa del blogtour dedicato a Waterloo. I cento giorni leggendari di Matteo Bruno, un romanzo storico edito BookRoad in cui l’autore trasporta il pubblico nell’epoca napoleonica dove i sogni reconditi di giovani e vecchi sono nelle mani di un unico uomo, quell’individuo solitario che si rende vessillo di un’era dal tramonto sempre più vicino.

Creazione a cura di BookRoad

A seguito del primo appuntamento dell’evento pubblicato ieri dal blog Les Fleurs Du Mal in cui è stata presentata l’ambientazione storica dove l’ultima fatica di Matteo Bruno è situata temporalmente, oggi mi appresto a farvi conoscere Giacomo Boschi, uno dei personaggi principali nati dalla penna dello scrittore perugino, e l’arcinoto Napoleone Bonaparte, due universi paralleli che, nonostante non possano incontrarsi per definizione, si intersecheranno in un crocevia di trionfi e sconfitte, poli opposti a livello dei quali insieme avranno la meglio e insieme soccomberanno.

 

Innamorato della vita e del diritto alla stessa, già dalle prime righe di Waterloo. I cento giorni leggendari, l’impetuoso Giacomo Boschi si presenta come un semplice ragazzo della sua età e del suo tempo, ventitré anni di spirito combattivo grazie al quale, con la tipica ingenuità ardimentosa della giovinezza in una mano e l’usuale elucubrazione costante di una precoce maturità nell’altra, si lascia trasportare dagli eventi disparati abbraccianti il suo cuore, un organo pulsante che, levigato da tumulti esteriori capaci di riflettersi totalmente nella sua indole complessa dall’essenzialità intrinseca, non ha smesso di battere per un ideale di utopica libertà, concetto quasi tangibile che, sebbene dimostri il giusto merito di essere realizzato davvero, si esaurisce al traguardo di un ben notorio percorso a ostacoli dove la storia ha la meglio e il lettore non ha scampo.

Certo, per Boschi era stata una fortuna che l’imperatore fosse capitato proprio sulla sua isola, e che si fosse stabilito proprio nella villa in cui lavorava come scudiero, un incarico che amava perché gli permetteva di stare a contatto quotidiano con i cavalli. Senza contare che aveva potuto vedere l’imperatore, parlarci addirittura! Mai nei suoi sogni di ragazzo aveva immaginato di potersi rivolgere al conquistatore del mondo, al generale ammantato di leggenda che, con le sue spettacolari campagne, aveva sconvolto la carta politica del continente e indotto un sacro terrore nelle viscere di ogni testa coronata d’Europa.

Per questo, nonostante la sua origine umile e l’ovvia distanza abissale tra i loro mondi, il ragazzo non può fare a meno di vedere in Napoleone quell’eroe a cui ambire con ogni fibra del proprio essere, un traguardo glorioso per un modesto scudiero che non vede l’ora di volare via dal nido di famiglia e lanciarsi alla spericolata avventura, epiche peripezie delle quali solo l’incipit possiede una certezza assoluta di verificarsi: da una parte un abile condottiero le cui gesta hanno sempre fatto disquisire in lunghe conversazioni biunivoche dove l’arricchimento personale detiene il posto d’onore, dall’altro lato un uomo assai normale in grado di commettere sbagli e farsi effige delle lapalissiane conseguenze da essi derivate senza però perdere il punto focale verso cui pensiero e corpo sono prepotentemente indirizzati, l’imperatore Bonaparte riesce a ghermire qualsiasi individuo scontento della realtà che lo circonda.

Una voce autorevole alle sue spalle lo fece voltare, e per poco non gli venne un accidente quando si accorse che Napoleone in persona gli si era portato al fianco. Anche l’imperatore guardava il tramonto. Dal profilo si riconoscevano le sue tipiche caratteristiche: il naso aquilino, il mento prominente, la mano destra infilata nella giacca all’altezza dello stomaco. Sul volto aveva dipinta l’espressione di sempre, leggermente imbronciata ma anche incredibilmente vigorosa.

Eppure, tutto ha un prezzo poiché, si sa, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, un do ut des implicito che molto spesso, purtroppo, non si tiene in conto alla chiusura del cerchio esistenziale ancora da vivere: i nodi ormai venuti al pettine dipingono una tela precaria in cui il destino ridanciano ci ha voluto assegnare, pennellate oblique cariche di amarezza dove le cause, vestendosi degli effetti, si palesano nella loro vera natura, empietà sanguigne nelle quali gli acclamati vincitori rinunciano ai panni glorificati vestendosi di cenci lacerati, gesti precipitosi che hanno squarciato l’anima dei bersagli e l’intimo delle frecce, strage di vittime (in)consapevoli che, alla stregua di carte sistemate a mo’ di castello temporaneo, alla prima folata di vento cadono una dopo l’altra.
Che l’epilogo sia di monito affinché non capiti più!