In questo anonimo martedì di Febbraio, mentre la calma piatta sembra attanagliare La Nicchia Letteraria e infestare il mio animo dato che la sessione universitaria è ormai palesemente alle porte, movimentiamo il tran tran quotidiano del nostro anfratto blogosferico partecipando al blogtour dedicato a Cuore sordo di Barbara Ghinelli che, pubblicato da Argento Vivo Edizioni alla fine dell’ormai tramontato Gennaio, potete acquistare comodamente cliccando qui.
Ringraziando dell’invito Roberto, admin di Thriller Storici e Dintorni, che tra l’altro si è occupato proprio ieri della tappa riguardante la recensione all’opera considerata nella presente iniziativa, oggi, come specificato nel titolo dell’articolo, sono i luoghi del romanzo a impersonare i protagonisti del secondo appuntamento di questo progetto.

Riflettendo sull’impronta più appropriata da dare all’intervento odierno, non solo ho cercato di identificare quali, secondo me, sono i luoghi rilevanti nelle vicende narrate dall’autrice monzese-brianzola, ma ho anche creduto quasi spontaneo discorrere dei sopracitati posti sia attraverso le ovvie citazioni spaziali attinte direttamente dal testo sia tramite le emozioni arrivate al mio spirito errabondo di lettrice, quei medesimi sentimenti che i personaggi di carta e inchiostro scorgono innanzi alla loro vita fatta di passato presente e futuro, quasi come se proprio là, al limitare degli stessi, iniziasse tutto e finisse altrettanto.

 

La sabbia umida sotto i piedi lasciava delle impronte a ogni suo passo e la brezza estiva gli scompigliava i capelli. Sentiva i raggi del sole bruciargli la pelle, ma la schiuma delle onde che morivano sulla riva gli sciacquava le caviglie e leniva un poco quella sensazione di calore.

Paradiso terrestre appartenente, nella provincia di Savona, alla Riviera Ligure di Ponente, Laigueglia personifica, senza troppa difficoltà, la tangibile incarnazione della pace per antonomasia, una parentesi geografica di tranquillità concretizzatasi grazie al placido movimento delle onde che, andando e venendo, lambiscono una spiaggia da sogno di cui potersi appropriare con destrezza a suon di passeggiate in riva al mare.

Non voleva partire da Laigueglia per tornare a casa. Non ancora. Sentiva che qualcosa di importante doveva ancora accadere, ma non riusciva a comprendere cosa. Non capiva nemmeno se questo riguardasse lui o il mondo intorno a lui.

Eppure, per sfortuna, l’apparenza riesce a ingannare anche il più candido dei virgulti, qualcuno che ancora nutre spasmodica fiducia nel legame tra essere e apparire, nesso ormai azzardato che, al pari di un maroso tanto impetuoso quanto flemmatico, è capace di sconvolgere chi, suo malgrado, si ritrova sulla sua traiettoria, portatore di enigmi da una parte e defraudatore di certezze dall’altra, scambi non equi di una vita in grado di sorprendere e destabilizzare.

 

C’era sempre traffico, a quell’ora di punta; era proprio per questo che lei amava fermarsi al lavoro fino a tardi, per poi prendere la macchina e dirigersi verso casa, includendo nel suo tragitto una breve visita ai punti più salienti della città. Sapeva che, anche nel tardo pomeriggio, Piazza Navona brulicava di persone indaffarate, di ragazzi che tornavano nelle proprie abitazioni dopo una giornata di studio a casa degli amici, di turisti che scattavano fotografie alle tre fontane che bevevano l’arancione dei raggi intensi del sole.

Origine prolifica di esistenza perpetua e fonte inesauribile di storia in divenire, Roma è la patria di molti e l’approdo di tutti, il giusto traguardo per chi decide di scoprire e scoprirsi in una versione inedita dalle mille e più sfaccettature, uno specchio capace di (far) riflettere le infinite possibilità che ognuno dei suoi avventori può stringere fra le dita, sorvolando su chi si è stati e su ciò che si diventerà un domani.

Quello che vedevano i suoi occhi era una villa magnifica a tre piani, inserita in un contesto di fitti alberi e di pini, con un giardino enorme limitato da alte mura di cemento. Eppure il suo cuore guardava altro. Il vuoto. La solitudine.

E se ad attraccare ai suoi lidi fosse quell’infausto presagio di morte precoce che colpisce quasi non seguendo alcun piano apparente e terrorizza la preda ignara della sua fine ormai vicina? Considerato quanto sia difficile capire come procedere, di certo lo è, a maggior ragione, decidere comunque di affrontarlo, entrando con sorpresa in campo e mettendosi a nudo su faccende taciute, con sempre la remota speranza nel cuore di uscire dal tunnel in cui si è consapevolmente entrati.

 

Scrivo al presente, perché non so cosa mi aspetta, non so se avrò un futuro e se, in questo ipotetico futuro, sarò in grado di raccontare il mio passato. Forse non esisterò più e quindi non lo potrò possedere, un passato. Di conseguenza, nell’istantanea di quest’attimo fuggente sento che, in fondo, solo questa potrebbe essere la mia vita.
E non posso neanche presentarmi. Come posso farlo, se non ricordo il mio nome? Ne avevo uno, un tempo, ma non più. Si è sottratto al suo destino senza voltarsi indietro. Lui ha potuto farlo, io non ne ho il coraggio. Devo vivere fino in fondo anche senza di lui, anche senza un nome.
Ora sono un numero. Tutta la mia esistenza è contrassegnata da un numero impossibile da ricordare. Una cifra senza volto, senza sorrisi, senza lacrime. Sono una persona senza più identità. Cosa ne sarà di me, dopo la mia morte? Chi mai potrà ricordarmi, se di tutto ciò che sono stata rimarrà soltanto questo?

Quale pagina bianca su cui fissare la propria scintilla interiore affinché non soffochi diventando parte della tale esalazione sinistra adombrante la volta celeste, nonostante l’appunto sudato si cancelli dopo breve tempo con uno schiocco di dita, parendo uno degli innumerevoli miasmi da scarico costante, Auschwitz è il luogo di non ritorno, bestiale epilogo che, avvicinandosi, isola e, ghermendo, sopprime, un abisso infinito dove cadere con e senza preavviso.

Mi guardo intorno e tutto ciò che vedo è un paesaggio nero, con sfumature grigiastre. Tetro. Lugubre. Non c’è colore. Soltanto vuoto. Il vuoto mi avvolge e mi culla nella sua danza macabra, nella sua nebbia fitta. Ogni minuto. Ogni giorno. Ogni notte. Ogni istante di questa vita, che vita non si può chiamare.

Tuttavia, si sa, un fiore nutre in seno anche la capacità di germogliare dalla pietra più tenace, solida convinzione ben radicata nell’intimo che, di fronte a un raro amore e, di conseguenza, alla nuova vita, si frantuma eseguendo quella spaccatura da cui la fede affiora e inonda, vigore di spirito che niente potrà soffocare perché il futuro è ancora a portata di mano, dolce carezza che, sfiorando guance non più fanciullesche da un lato e bisognose di affetto sincero dall’altro, si è obbligata a esigere con prepotenza.