Quando si prende in mano un libro con l’intenzione di farlo proprio, alloggiando temporaneamente in un mondo nel quale le complicazioni angoscianti della vita personale sono esiliate, quasi per magia, in un angolino remoto senza alcuna importanza, un universo da cui, a volte, staccarsi per espletare la normale routine quotidiana risulta oltremodo faticoso e problematico, nuova situazione spinosa da aggiungere alle già presenti in transitorio stand-by, durante quel momento esatto che sembra essere stato fatto su misura per l’ennesima e inedita lettura accompagnante il nostro viandante letterario in cerca di aria dall’apnea della realtà e di acqua dall’arida esistenza di ogni giorno, proprio lì, nell’attimo sancito da un orologio in perenne ticchettare, si comprende per davvero la necessità impellente e recondita dell’approcciarsi all’ulteriore, pagine e inchiostro che rapiscono l’anima liberandola dalle catene dell’oppressione, volo sulle ali dell’orizzonte dimentico della gabbia in cui si è confinati. Quello che rimane di Paula Fox, per la cui copia digitale ringrazio la casa editrice Fazi Editore, per me ha rappresentato il famoso ritorno a casa, l’ovvio attracco al porto di noi lettori per ritrovare, prima, sé stessi e, poi, riprendere la rotta di sempre, quella banchina a cui mi sono soffermata volentieri dopo circa due settimane di fermo obbligato dai lessemi stampati, una sosta dalla piacevole natura che, comunque, mi ha fatto riscontrare determinati aspetti non troppo inclini ai miei gusti.

È una normale sera di primavera quando i signori Bentwood, come usualmente si prodigano a fare, si siedono a tavola per consumare la cena, pane francese da una parte, sauté di fegatini di pollo dall’altra, affettati a destra e risotto alla milanese a sinistra. Non si aspettano alcuna incursione da chicchessia in quell’istante famigliare e privato, ma, dopotutto, Sophie ha cominciato a nutrire un gatto randagio che, immancabile, alla costante ricerca di cibo, si presenta in orario di fronte all’uscio a vetri affacciante sulla veranda di legno sopra il cortile posteriore dell’abitazione dei coniugi: se Otto vuole ad ogni costo che la moglie non continui a offrire il vitto alla piccola fiera, suggerendo anche di chiamare l’American Society for the Prevention of Cruelty to Animals per sbarazzarsi della sua presenza incomoda, lei, invece, è intenzionata a perpetrare il suo atteggiamento solidale e generoso, concedendo alla bestiola di sfamarsi con il loro latte. Purtroppo, la pantera in miniatura non risponde alle aspettative della donna poiché, a tradimento, morde la sua mano sinistra con una violenza e una foga tali da spaventare a morte la sua vittima. Complice la paura che l’animale sia affetto da qualche strana malattia, la tale punta di iceberg pelosa darà inizio a un’escalation di vicissitudini in cui Sophie rifletterà su ciò che ha e ha avuto, su quello che avrebbe posseduto in altre circostanze e possederà in queste, (im)possibilità da toccare con mano o solamente da sfiorare, al contempo vicine e lontane, irrealizzabili e attuabili insieme.

L’esiziale falce non chiede mai alcun permesso. Bramante di quell’unico momento propizio, raro ansito di vita tolta capace di colpire nel punto giusto e mietere le vittime sbagliate, tessere di un domino che, a cascata, si lasciano andare al loro destino di fine, malaugurato incedere appartenente a uno strano figuro dalle umane sembianze che di nero veste, desiderosa che l’offerta sacrificale compia la mossa erronea nella partita a scacchi della vita, sfida ai massimi livelli dove vincere per il contendente nostro alleato non è l’epilogo da aspettarsi, gara squilibrata della quale ognuno conosce la chiusura ma non l’inaugurazione, pronta ad artigliare palmi inconsapevoli di individui informati dei fatti più o meno noti, puzzle in costruzione che necessita dei giusti tempo e spazio per vedere la luce ultima, faro in lontananza che, all’apparenza squarciante le tenebre del traguardo, ingloba la fiamma del prossimo tramutandola in cenere, la normale decadenza porta con sé una ventata di putrida aria, recondita paura del cattivo auspicio che potrebbe verificarsi da un attimo con l’altro, preoccupazione allarmante in grado di mettere in discussione il nostro impercettibile universo, realtà che ha avuto, ha e avrà sempre influente dominio sull’essenza della nostra persona, ieri oggi e domani che si compenetrano a vicenda dandoci spunti di riflessione da cui partire per impossessarci, di nuovo, del fievole lasso rimastoci, decadente esaurirsi di un iter da profilassi avanzata.

Il dolce aroma del passato riverbera in noi al pari dell’eco di una pietra lanciata nell’acqua, lago dalla superficie di calma piatta che, infranta irreparabilmente la sua quiete, si ritrova con un nuovo inquilino da far soggiornare, un ciottolo forse dall’aspetto insignificante che, appoggiatosi nella culla del fondo, introduce valore supplementare al già presente tesoro, centro di un plausibile futuro in grado ancora di sorprendere. Tuttavia, ripercorrendo a ritroso le falcate compiute, immergendo quindi le mani nella limpidezza trasparente dove avevamo gettato, quasi nel dimenticatoio, i ricordi felici dell’era che fu e riguadagnando il compianto bottino di nostro diritto, scopriamo davvero le carte in tavola, assi nella manica che, sebbene la loro contigua visione accurata spaventi più del dovuto, illustrano la mera realtà degli accaduti, felicità camuffata agli inizi condivisa e poi accertatasi a senso unico, rotta verso cui, in solitaria, noi procedevamo a vista, parte del duo sicura del suo marciare e ignara degli altrui sotterfugi, amara rivelazione che, scoperchiato il vaso di Pandora, è esplosa come fuoco d’artificio, smascherandosi finzione e abolendosi sincerità: l’amicizia diventa fugace dimostrazione di affetto banale, intensa risposta alla ricerca emozionale di sé, un inganno ben architettato che induce al domandarsi se vale la pena protrarre tali legami inconcludenti, relazioni di non pregio che, mantenute con astrusità nel tempo e distrutte con facilità in pochi secondi, soccorrono il nostro animo in travaglio con il proprio riscatto redentore, moto profondo conseguente alla mancata prova del voler bene, bocciolo di rosa elargito con dovizia e arbitrio, ma ricambiato col nulla di bazzecola, tallonate attenzioni inseguite all’ossessione, ultima spiaggia che vincola l’altro a reagire, non sempre nella maniera che attendiamo con ardore.

La prigione di detenzione dall’esistenza viene, pertanto, creata da noi medesimi, casa dall’esterno ospitale in cui rimaniamo per forza confinati, gabbia dalla reclusione nel sangue per la quale nel nostro intimo si progetta, in ogni modo, di allontanarsene in via definitiva, uscita d’emergenza che, sebbene sia stata trascurata dal reiterato non utilizzo, adempie ai suoi doveri, responsabilità che vincolano, districando, e incombono, esonerando: le ali tarpate negli anni persuadono il loro Icaro a scorgere l’annichilimento nella routine, abitudine ormai obsoleta da risultare, con lo scorrere infinito delle ore, dannosa per il nostro povero cuore, recalcitrante organo in perenne pulsare che, stallone nell’autonomia di una prateria dall’eterna libertà di catene, freme impaziente, scalciando senza posa, scompiglio interiore che cerca di riverberarsi al di fuori del dentro, ritratto esatto del sé per cui, deliberati, sorvoliamo facendo finta di niente, un totale segregare di sensazioni impulsive che, dal cassetto dove sono isolate, a volte traboccano dagli argini, innalzamento dell’acqua che può evincere incapacità nel blocco repentino, ermetica serratura da imputare solo all’io identificante, Quello che rimane e a cui possiamo aspirare, traguardo dettato dall’età matura a causa del quale, forse, non ci sveglieremo mai, apatia del prima, inerzia del mentre, indifferenza del dopo.

I sogni, però, sono immortali perché resi tali dai loro visionari. Scuotere lo spirito e riprendere a vivere è il giusto passo da compiersi per voltare pagina e trovare la soluzione ai nostri problemi correnti: la passività deve diventare una lontana rimembranza da cui levare le ancore e salpare per la linea del tramonto, nebuloso profilo che permette di modificare il percorso intrapreso sottolineando che non è mai troppo tardi per le novità in arrivo, impegno aggiuntivo che finalmente manifesta il suo antenato in sordina e restituisce l’aureo podio alla rivincita sul piattume, sostanziale reazione per comprendere chi siamo e se quel risultato ottenuto sia la meta riconosciuta dal nostro destino, entità superiore che, razzista nei nostri riguardi, incita quello stesso atteggiamento verso i vicini del circondario, fanatica intolleranza di malriposta ripercussione che seleziona i perseguibili tra le nostre fila, scaricando a terra l’ingombrante zavorra per prendere il volo e osservare dalla distanza di sicurezza lo scempio creato dalle proprie mosse compiute, attuale panorama dai dolci pendii che, imbrattato dal lavarsene le mani, brulica di emarginati, calca fomentata che sbaglia e non accetta, inciampa e non si rialza, innesca e non chiede perdono.

Il dibattito nasce spontaneo dal non tergiversare per l’orgoglio e la boria dell’amor proprio, cattive abitudini che, sprezzanti dal loro piedistallo, osservano con alterigia, ghignano con tracotanza e odiano con bramosia: parlarsi quando si ha qualcosa su cui discorrere, armoniosa sintonia che si evince nel momento in cui l’urgenza chiama, incontro di pari che, dissimili, si riconoscono uguali, confrontarsi nel momento opportuno per l’effettiva chiacchierata in programma, menù di degustazione da cui attingere tramite una scelta ben oculata, alternative da contarsi sulle dita di una mano aperta alla freschezza, e mostrarsi nudi per come si è, evitando bugie artificiose o genuine di sorta, vetrina di una boutique prestigiosa sui cui manichini abbiamo importanti indumenti ondeggianti alla folata dell’anima in rigenerazione, simboleggiano il trio alfabetico d’esordio per protestare, combattere e vincere, rabbia repressa che esonda e scompiglia dalle fondamenta, provocando ragguardevoli mutamenti nell’indole, collera indirizzata nei confronti di un’illusione da noi calcolata fin nelle quisquilie, penuria di giustizia anche nel simile davanti ai nostri occhi indagatori, presa di posizione che ghermisce la contingenza e regala un minuscolo sussulto atto a far emergere un coraggio da leoni, risolutezza e fermezza che ormai affrontano tutto e non si nascondono più.

Dimostrando un’arte senza eguali nel saper maneggiare abilmente la parola e le sue derivazioni di nobile lignaggio, aulico tocco di classe che, durante il viaggio tra le pagine e l’inchiostro, non passa di certo inosservato, permettendo così al libro stesso di raggiungere vette inesplorate di raffinata essenza curiale, Paula Fox elargisce al suo pubblico una ridotta manciata di situazioni esistenziali, passato e presente che, come antiche origini e derivate conclusioni, si intrecciano rincorrendosi nelle ponderazioni dei personaggi, navigazione psicologica in cui il lettore non può fare a meno di immedesimarsi, facendo proprio quell’universo parallelo dove la risma stampata lo ha introdotto di prepotenza, un mondo nel quale le descrizioni degli ambienti circostanti e degli stati d’animo avvolgenti contribuiscono all’assimilazione forzata dell’altrui spirito errabondo, un’intesa di sentimenti per cui la bravura dell’autrice risulta esemplare, in maniera assai legittima, talento non occulto che si evince da ogni lessema esaminato prima e assimilato poi. Nonostante queste caratteristiche molto positive, purtroppo, Quello che rimane, in un certo qual modo, obbliga gli astanti a procedere, fin troppo adagio, nell’abbraccio dell’avventura letteraria di cui è portavoce poiché, sebbene la curiosità invogli comunque a seguitare nel divorare un capitolo dopo l’altro la storia dei coniugi Bentwood, la confusione, presente quasi in una foggia parecchio inopportuna sia nei dialoghi botta e risposta sia nelle diapositive tratteggiate, impone un freno all’avanzata di chi legge, zibaldone anarchico di formae mentis che, però, è stato capace di riflettere, al pari di uno specchio d’acqua, il turbinio di vita a cui tali individui di carta sono soggetti, baraonda di emozioni che atterrisce e rincuora, distrugge e fortifica, addormenta e apre gli occhi, per sempre.

 

 

Valutazione:

 

Scheda libro

Titolo: Quello che rimane
Autrice: Paula Fox
Casa editrice: Fazi Editore
Pagine: 206
Anno di pubblicazione: 2018
Genere: Narrativa
Costo versione cartacea: 16.50 euro
Costo versione ebook: 9.99 euro
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