Ogni volta che prendo in mano un nuovo libro di Ornella De Luca, so per certo che verrò catapultata in una narrazione conturbante, resa al meglio attraverso lo stile fresco e genuino caratteristico dell’autrice, pagine di vita vera dove il lettore pernotta per il tempo necessario e veste i panni dei personaggi principali, estranei all’inizio del viaggio, amici alla sua conclusione, individui per i quali non si può non nutrire, alla fine dei giochi, un affetto viscerale, amore che si sviluppa anche dopo aver abbandonato il binario letterario con un sospiro oltremodo desolato.
La mia meraviglia, però, è dovuta ad altro. Forse dovrei proprio smettere di nutrire aspettative specifiche per i tesori inestimabili di cui ci fa dono questa scrittrice poiché lo stupore in merito coglie sempre impreparato ogni viandante letterario che incontra sul ciglio della propria strada: nessuna opera da lei firmata è pari a una sua antenata precedente, dimostrando quindi il peculiare e, forse, monotono modus operandi da serial killer su carta, arma micidiale che fende l’aria e deposita un colpo da bersaglio centrato nel cuore a essa più vicino; ogni opera da lei firmata rende giustizia all’intrinseca e reale bravura che nasconde, non troppo velatamente, la penna di Ornella De Luca, lavoro in continua evoluzione che la stessa autrice sviluppa col passare del tempo, amico leale e sincero di ogni paroliere d’inchiostro meritevole di rispetto; nessuna opera da lei firmata promette al suo pubblico qualcosa di già affrontato, infelici cliché della forma espressiva che, a lungo andare, potrebbero stancare e ritorcersi contro il loro creatore. Perciò, fidatevi di me se vi dico che La stazione dei bagagli smarriti è unicità sotto forma di libro, quadrifoglio in un manipolo di tre petali comuni e asettici, insolito diamante che cattura e riflette la luce degli altri sui simili, esaltandoli, oscurandoli, ravvivandoli, distruggendoli, un podio conquistato con un facile e scaltro destreggiarsi tra gimcane stampate.

Dopo aver lasciato, senza protestare, il lavoro di barman da Malcolm poiché licenziato in tronco dal titolare stesso per i sospetti nutriti nei suoi riguardi, equivoci ambigui instillati da Alex, figlia del capo e cameriera del locale, che, vedendosi prima rifiutate le avances e poi defraudato il suo “giocattolino” Thomas, ripiego innamorato di lei dalla notte dei tempi e mai contraccambiato dalla ragazza, ha deciso di vendicarsi mettendolo nei guai con una bustina di droga strategicamente posta nel suo armadietto, Daniel Wright sceglie di cambiare del tutto la sua vita, lasciando Boston e con essa l’università, quell’ateneo in cui stava cercando di terminare gli studi di medicina per specializzarsi in cardiochirurgia. L’alternativa verso cui ha optato, però, è oltremodo folle, considerando non solo che sta frequentando il secondo semestre del suo ultimo anno, ma anche che la città dove vuole trasferirsi è proprio New York, il luogo da cui era scappato diciotto anni prima, quella Grande Mela sulla cui buccia è inciso a fuoco, come nel cuore di uno degli orfani di Villa Sullivan, un unico nome dalle tonalità bianco “sporche”, Ivory, l’amica e sorella che lui non ha mai dimenticato.

Ritornare sui propri passi è sempre sinonimo di fallimento, inesorabile sorte che induce, nel figlio, la prodigalità necessaria a imboccare, con la coda fra le gambe, la strada scelta agli esordi, una direzione percorsa ora a ritroso, falcata dopo falcata, verso l’ovile che, alla partenza, aveva assistito in prima persona alla fuga rocambolesca con quell’unico obiettivo di un avvenire migliore sotto ogni punto di vista, tenente conto di entrambe le fazioni, non solo del sé ma anche degli altri? Le vicissitudini dell’esistenza assegnataci hanno la tipica peculiarità di guidarci in prossimità di specifici lidi, estranee coste nella cui direzione, a conti fatti, il nostro essere non ci esorterebbe a sufficienza per contemplarne la mera idea marginale, spiagge sconosciute ancora inesplorate che, in ogni dove, nascondono, pure alla vista smaliziata di un individuo assuefatto agli itinerari dal sapore dell’ignoto, insidiose trappole accoglienti della preda in un abbraccio da tagliola ben molata, rappresentanti, da una parte, il brillante camuffamento di opportunità così grandemente mascherate da imporre all’astante la sola e necessaria concentrazione in grado di svelarne l’inganno architettato, dall’altro lato, invece, mancate occasioni truccate oltremodo, fin nei minimi particolari, alla stregua di radici infingarde che hanno fatto dell’ignominia una qualche forma d’arte a sé, moto discendente che accoglie, tra le fila del resto meno articolato, le sinuosità più impossibili da raggiungere, anse tortuose che, in qualche modo, testimoniano l’agire del pennello, tocco d’artista che, esaltante del falso, sbeffeggia il vero.

Basta un minuscolo istante per arrivare al fondo del barile, caduta libera con l’obiettivo finale della prigione per antonomasia, abisso cupo da raschiare per possedere, nella stretta ormai inerme, un’anonima possibilità di riscatto, via di salvezza che stenta a emergere dal ligneo alveo, una mano speranzosa che vuole afferrare il vento dal mutevole contatto, aria birbante che elude, sgusciando, e scappa, ridacchiando: dopo i colpi al cuore ricevuti in successione nell’arco delle ere, sequenza ritmata da una periodicità in continuo evolversi e scandita grazie a un lugubre direttore d’orchestra che, bacchetta alla mano, graffia fortemente e segna indelebilmente, punta luminosa che, dall’impressionante forza marmorea, si incunea in profondità, scavando le ossa rinsecchite per cercare lì, dove ormai la vita ha lasciato gli ormeggi da tempo indefinito, esistenza in gocce cremisi, delusioni portanti le sembianze dell’olio di ricino, amaro intruglio scorrente i condotti che dall’esterno dirigono al nucleo, fiaschi per fischi che abbiamo tentato di raddrizzare bloccando quella processione di dolore nuovo su sofferenza antica, giunge quel momento in cui è necessario rivedere le priorità di sempre, punti cardinali di un’esistenza passata a tollerare il destino avverso, ingollandone i rospi elargiti con impudente sfrontatezza, anfibi che nemmeno il più tenero dei baci può trasformare in nobili eredi di un reame leggendario, e puntando, quindi, il forse trascurabile successo sul principio dell’ennesima avventura da scoprire poco per volta, impegno sudato che chiude la corrente (di)partita per cominciarne un’altra, titoli di coda prevedenti già un seguito poiché la fine di una realtà è soltanto il nuovo inizio della successiva.

La pagina bianca è ora pronta per essere affrescata di umido inchiostro. In uno schiocco di dita, le esperienze del domani si tramutano magicamente in vittorie dell’oggi, mano fortunata di carte che finalmente riesce a celebrare davvero la nostra persona, naufrago degli sballottamenti orditi da un fato dall’ironica essenza, adrenalina che scorre impetuosa in vene assai sensibili al suo cospetto, studio perpetuo dell’epinefrina inneggiante al trionfo del sé, oasi di pace che si staglia, temporanea, all’ombra di un mondo capace ancora di ferire, passato che torna come marea lambente battigie in attesa, rifugio paradisiaco che comunque permette di mantenere salda la connessione con la tangibilità circostante, un limite ultimo da oltrepassare, contenendosi, varcare, restandone fuori, e superare, eterno secondo da patacca d’oro: il vuoto portato appresso dagli esordi rimane al suo posto, ubicato nell’esatto luogo in cui le nostre radici hanno deciso di attecchire, un seme che, nell’erba gramigna intorno, ha trovato un’amicizia insperata, legame forte e indissolubile che ha temprato l’animo emotivo dal punto di vista sentimentale, schiavo di un pregresso trascorso alla ricerca della perfezione inesistente, magnifica chimera che ha offuscato qualsiasi fiamma, incendio in vigorosa ascesa di uno spirito che, energico, ha perso terreno fin dalla partenza, imperitura corsa per ottenere i riconoscimenti d’aurea fattura visceralmente bramati, detenendo, alla resa finale, l’esclusivo primato in grado di aprire l’uscio blindato del sogno fattosi ormai concretezza.

Il metodo delle imposizioni con lo scopo di plasmare il diverso a proprie immagine e somiglianza, tentando di dare una forma ben precisa a una volatile creatura che ancora deve comprendere il significato di crescita e realizzazione in base ai personali criteri morali, purtroppo, porta all’effetto contrario, separazione forzata dall’altrui materialità, soprattutto qualora l’estrema mira fosse il mero tornaconto nominativo, antitesi dell’affetto che dovrebbe albergare nel fulcro di tutti, un sentimento per il quale nutrire sfiducia è presto detto, capovolgimento dell’angolazione basilare a causa degli squarci ottenuti in cambio, tagli non cicatrizzati che consumano nel versare lacrime purpuree, memorie che ricordano la serie di pugnalate tratte alle spalle, regali incartati egregiamente dai vicini del nostro animo, assassini dell’io che, inerme, è rimasto in attesa del qualcosa in cui aveva sperato, inducendoci a perdere la spinta di trovare quel bene di cui, inconsapevolmente, si era in cerca, orizzonte sempre più distante che non saremo mai in grado di raggiungere.

L’investigazione dell’emozione assoluta, tuttavia, non può essere sostituita da insipidi contenuti che hanno fatto dell’inconsistenza la loro alma mater, poiché la materialità degli effetti, luccicanti e scialbi ingredienti di una ricetta insulsa dal paradosso del valore nullo, acceca e, coercitiva, ci vincola a traverse insensate che solo un agire sconsiderato permetterebbe di raggiungere, avanzata implacabile che non si ferma di fronte a niente e chicchessia pur di afferrare con mano salda e determinata il premio finale, coronamento che giustifica qualsiasi strumento adottato, malvagie macchinazioni che potrebbero, con l’alta probabilità dell’uno in avvicinamento, ferire tutti indistintamente, inclusi coloro che avremmo dovuto amare, nessuno esentato dall’infausto destino: da una parte, a volte, il tempo permette di comprendere gli errori commessi, portando alla luce della ribalta il rimedio provvidenziale, un piccolo e, forse, insignificante contributo per tutte le malefatte consumate su vasta scala, una sete di potere che cerchiamo di estinguere tornando sui passi compiuti anni addietro, consapevole retrocedere da un’esistenza grama mietitrice di vittime deboli e indifese; dall’altro lato, invece, facendo del saltuario uno stile di vita, si continua imperterriti sulla via sbagliata, eseguendo altre scorrettezze che si sommano alle loro gemelle precedenti, un continuo sbeffeggiare che, prima o poi, il karma tramortirà con la potenza di uno tsunami, arridendo i buoni e sconfiggendo i cattivi, incrociando le dita affinché sia per sempre.

È proprio in momenti di bisogno come questi che il tratto amorevole del pubblico non pagante emerge al pari di una scialuppa salvifica tra le acque impietose del nostro oceano. Infatti, se si osa guardare bene tra le nebbie della desolata solitudine autoimpostaci, in cui l’abbandono è diventato l’unico e fedele alleato, possiamo trovare nuove spalle su cui piangere o, ancora meglio, pendii dolci su cui sciogliersi in un sorriso, una famiglia diversa dalla tradizionale ma non per questo meno valida dei canoni modellati, complici per i quali voler guerreggiare e, al contempo, essere difesi a spada tratta, do ut des ripagato con gli interessi senza benefici ulteriori: aiutare chi ha necessità può rivelarci chi siamo davvero adesso e chi vorremmo essere un giorno, concedendo al ritrovato autonomia sulla scelta più giusta da preferire, quell’opzione litoranea da intraprendere evitando, finalmente, di voltarsi indietro, compagni che sanno fiancheggiarsi durante tutti gli istanti esistenziali, anche nella sordina della lontananza, sull’attenti per arrivare pronti, contribuendo pure con l’impensabile e rendendo possibile ciò che la natura non ha reso tale, allargarsi di un nido in cui perdersi per poi ritrovarsi, un bene che, alla fine della fiera, può sempre vincere se gli permettiamo di rivalersi sul male, togliendo dal suo posto e imponendogli un nuovo ordine necessario.

Il panorama disseppellito allo sguardo è il regalo che la sorte ha voluto, da ultimo, offrirci quale prelibatezza da stella michelin, un orizzonte che sancisce la genuinità dell’insieme imponderabile di cause abile nello specificare, con particolari annessi, gli accadimenti della vita, un’entità superiore che non prende mai abbagli, guizzi rivolti alle orbite che, previsti anche dagli episodi alquanto leggeri di calibro, manifestano l’argomentazione primaria per cui i tasselli del puzzle, all’unanimità, prendono posto nei nostri dintorni, signorile compimento del quale dobbiamo approfittare non appena ci è possibile, anche se tale declivio a patti esula dal nostro intendimento, disinvolta tolleranza, collaudata dalla genesi, nei riguardi del padre degli enigmi irrisolti: straordinariamente, un futuro roseo si dimostra a portata di mano, continuazione rivisitata del presente e decretata dal passato, il primo, generoso benefattore della valenza antecedente e dell’instradamento successivo, il secondo, istitutore forgiante dell’universo come lo conosciamo adesso, entrambe guide principiate solo grazie al canto dell’adulante sirena, prodi Ulisse che cercano di tornare alla mitica Itaca, inciampando nelle avventure più dissimili e non plausibili, ancore levate e largo preso, coppia vincente che arricchisce il solitario esaltandolo.

Dopotutto, la vita è una, fino a prova contraria. Sebbene la paura dei sentimenti sia recondita nella nostra intima personalità, un timore approfondito che ha origini antiche e inveterate, svilente conseguenza di proibitiva memoria, attraente e sinuosa figura in grado di declamare ogni tabù per sé, insaziabili fauci che accolgono, insieme, il caloroso Inferno e il luccicante Paradiso, è obbligatoria un’apertura mentale verso la felicità, bene comune non sempre riconosciuto dal circondario, marachella dall’inestimabile ricchezza che si deve compiere pure sotto tortura, accordando alle emozioni da essa scaturite di inondarci in folle, senza alcun freno di sorta azionato: la bugia non rappresenta la regina della scrematura di termine in quanto la sua ritorsione contro l’io è un dato della premessa, anche se invocata con la buona fede da bravo ragazzo, pesi ingenti che sanno di rimpianto malcelato e inquadrano le alternative considerate sommariamente all’epoca, ragguardevoli zavorre con le quali convivere potrebbe tratteggiare il famoso dipinto della problematicità, escogitando fantasiosi antidoti per riesumare il nostro storico, tramonto di un giorno che, magari, non vedrà una nuova alba, ma per cui sperimentare un dopo in pratica non costa niente.

La realtà, infatti, non è proprio come l’abbiamo osservata noi. La corretta prospettiva è capace di meravigliare, con scrupolosità, le corde del nostro cuore, sorvolando sugli obsoleti peccati e sulle mezze verità sistemate di sbieco, cangiando l’aria viziata dalle stantie impronte con la minuta falce del viso, un meglio che viene e verrà nelle piccolezze da assaporare e vivere intensamente, voce fuori dal coro da ascoltare per essere condotti, dall’incantesimo del momento, nella direzione delle beltà occulte di quell’evidenza stimata al di sotto del suo naturale livello, satura edulcorazione che non conosce il ritegno, rose e fiori in procinto di appassire, finendo in via prematura nel pattume, per i quali urge l’intervento istantaneo, assidua premura da condividere con l’altro, album storico in cui inserire un ricordo degno di nota, solitudine spartita con il prossimo resasi, quasi al limite dell’assillo, emozionante nella sua piatta staticità, apparenza che inganna e, dietro la facciata, racconta di sé, pillole veritiere da cogliere come frutta matura e intendere al pari di una nozione importante, volontà viscerale dello scibile spericolato racchiudente l’esistenza impossibile a cui ci siamo appena consacrati.

La stazione dei bagagli smarriti è l’approdo sicuro dove il cuore e l’anima del lettore possono trovare ciò di cui vanno in cerca: sbarcando ai suoi lidi, si avrà l’evidente possibilità di inciampare in sentimenti letargici che riprendono vita al momento opportuno, in quei legami intensi che fioriscono dal nulla e sanno protrarsi per l’eternità, in un avvenire ormai scritto eppure ignoto che sa di afferrata libertà, tutti voli pindarici espressi con la grandiosa maestria che solo la penna di Ornella De Luca sa estrinsecare, una delle poche autrici capaci ancora di sorprendermi a ogni nuovo capolavoro pubblicato. La sensibilità del pubblico è di certo messa a dura prova in quanto lo sfogliare delle pagine induce a un’immedesimazione totale nelle situazioni narrate, vicissitudini in sequenza che impongono determinate reazioni emotive in grado di squassare l’anima, rovina di uno scrigno pulsante che perde battiti e soffoca gemiti distruttivi, ferite recalcitranti che segnano col peggio per cambiare in meglio, denunce sociali che, sebbene l’evidenza in essere, riescono sempre a passare in secondo piano, una prospettiva però inneggiata nella storia presa in esame, equilibrista in bilico tra passato e presente, lezioni dal primo per i rimedi del secondo, unione a doppio filo che, assordante, si ripercuote nell’eco del domani, mistero di esistenza che, finalmente, non incute più timore.

 

 

 

 

Valutazione:

 

Scheda libro

Titolo: La stazione dei bagagli smarriti
Serie: The Orphanage Series #3
Autrice: Ornella De Luca
Casa editrice:
Pagine: 512
Anno di pubblicazione: 2018
Genere: Romance, Narrativa
Costo versione cartacea: 15.63 euro
Costo versione ebook: 0.99 euro
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