Ormai entrata nel tunnel degli inviti su “minaccia” da parte di Susy I miei magici mondi per gli eventi da lei coordinati, ringraziandola per l’ennesima volta di aver permesso al nostro piccolo anfratto letterario di inserirsi nella sua più recente cospirazione organizzativa nata dall’essere medaglia d’oro davvero alacre, tramite il suo fiuto da segugio in fatto di chicche letterarie imperdibili, nei giorni scorsi ho scoperto una storia graziosa che, sospesa sul filo di demarcazione tra realtà e utopia, mi ha toccata nel profondo, inducendomi a percepire sentimenti contrastanti nella mia anima, gaiezza mista a malinconia, spiritosaggine avvicendata a solennità, mescolanza di ingredienti vincenti che DeA Planeta ha giocato al momento giusto, un poker d’assi per la cui copia digitale in omaggio sono grata alla casa editrice.
Davvero l’amore può trovarci ovunque? Cora Hendricks, operatrice del check-in all’aeroporto di Heathrow, pensa di sì. Assunta in via temporanea, per la durata di un anno, nella squadra di supporto al personale di terra in occasione della sospensione del sistema self per l’accettazione, la figlia di Sheila, ex lavoratrice indefessa in quel luogo caotico dove la vita sembra prendere nuova forma, ha deciso di applicarsi per l’altrui felicità, visto che, nonostante i suoi sforzi, la fortuna non le è mai stata amica nel campo dell’affetto: durante i voli in cui prende servizio l’hostess Nancy Moone, collega con cui ha stretto una fortissima connessione fin da subito, ringraziando la vicinanza fortuita dei loro armadietti nello spogliatoio, Cora le affida il compito di osservare i passeggeri alla fila 27, un angolo appartato tra le nuvole che, quasi nei paraggi del paradiso stesso, cerca di fare da scenografia al sentimento, permettendo agli avventori del momento di conoscersi e, perché no?, perseverare nel rapporto neonato anche dopo essere scesi dal mezzo di trasporto.
La signorina Hendricks trova estrema soddisfazione nell’incarico che si è auto-imposta, tanto da catalogare i successi della sua impresa in una tabella specifica, correlata di diagrammi a torta e caratterizzazioni improntate a una sempre più migliore identificazione dei soggetti adatti allo scopo, una sorta di volontariato nei confronti del prossimo il cui sorriso, a suo parere, incarna perfettamente l’ottava meraviglia del mondo moderno. Tuttavia, sebbene sia meritevole di lode, concentrarsi sugli altri invece che sulla propria esistenza potrebbe essere controproducente per sé stessi, implicando effetti collaterali che arriverebbero a sorprenderci in bene e in male, quando meno ce l’aspettiamo.
La felicità è il centro di ogni universo. Fin dal momento in cui cominciamo a muovere i primi passi nella nostra vita, inciampando una volta di troppo nelle radici nodose di tranelli infingardi e correndo quella successiva per riprendere in mano il tragitto dalla rovinosa caduta nello stallo passeggero, a partire dall’attimo in cui posiamo i piedi sulla strada che abbiamo deciso di intraprendere, la prima scelta tra una folta rosa di alternative candidate, unico piatto forte che, celebrante il menù a disposizione come pietanza in grado di arricchire ed esaltare oculatamente la lista delle elencate possibilità, riesce a richiamare il nostro palato gourmet al pari di una sirena emersa dal flusso della mitologia ancestrale, esattamente da quell’istante in poi, la ricerca della felicità diventa la nostra urgenza massima, quel sole intorno a cui il nostro pianeta si sente in dovere di orbitare indisturbato seguendo la traiettoria a esso designata, nucleo di atomo che mantiene legati a sé i suoi personali elettroni nell’assoluto bilanciamento tra lontananza e vicinanza, un’isola ai cui confini le acque di tutti i mari sembrano incontrarsi di soppiatto, avvicendandosi con cautela di sorta, e perdersi alla luce dell’evidenza, mischiandosi tra i vari blu cobalto con cresta di schiuma.
Tuttavia, identificare quale sia l’obiettivo giusto verso cui orientare tutto l’operato dalle benefiche finalità non è sempre di istantanea comprensione, repentina distinzione del bersaglio da centrare con la necessaria sollecitudine convenuta, freccia incoccata che, assunta la posizione d’assalto, brama incunearsi nel cerchio più piccolo sul fondale scenografico pensato per un qualsiasi Robin Hood in erba, là dove i concentrici attendono, senza inutili lamentele, il fato assegnato loro dalla dea bendata, stampa indelebile, scritto non cancellabile, bozza improrogabile: che la mira scandagli l’alveo della nostra indole, fucina di spunti interessanti da cui avviare la ricerca egoistica della sorgente alla quale appellarsi per dedurne gli inspiegabili soccorritori volenterosi della mestizia, o che il disegno preferisca essere scolpito a fuoco sui cuori vulnerabili del prossimo, culle aperte al dolore meraviglioso di un sogno divenuto realtà, l’esito conclusivo sarà sempre il medesimo marchio, risultato tangibile della conquista finale, quel gaudio che, al postutto, deflagra indomabile, lasciando dietro di sé scie luminose di euforia, minuscole orme che echeggiano circostanti sottolineando agli spiriti affini la rarità del loro atipico passaggio.
La probabilità dell’intendimento nei riguardi delle altrui persone assume una caratterizzazione maggiormente evidente, qualora, al suo posto, considerassimo, invece, la dolce premura del sé, un trattamento speciale dedicato in via esclusiva al nostro essere, quel puntino che, benché insignificante se comparato alla grandezza smisurata del cosmo di cui fa parte, ingaggia una posizione di considerevole rilievo, regalando alla globalità una marcia in più, cloche che scala senza il minimo preavviso oscillando pericolosamente tra il capogiro della velocità e l’apprensione della lentezza: l’abilità di cognizione pare focalizzarsi sull’ambiente che ci stringe benevolo, una bolla minuta che protegge la nostra essenza dalle infiltrazioni esterne, quattro mura irrobustite entro le quali il cuore palpita al sicuro, tachicardia che, nonostante sia costantemente rilevata, stentiamo ad afferrare nella sua effettiva conformazione, come se la nostra intenzione sia ignorare, in maniera completa e voluta, i nostri bisogni elementari, un punto di vista risoluto nei confronti del nido nel quale incarniamo sia i genitori sia i figli, uno scambio di identità in perseverante divenire che induce ad abbandonare qualsiasi prospettiva futura in cui noi siamo i protagonisti e gli altri il pubblico pagante.
La linea di demarcazione che sottilmente separa quei due abissi ineguali dove cadere preda di innumerevoli opportunità differenti esuma le uniche problematiche in grado di affliggere il nostro temperamento, automobile ormai malconcia che, all’ennesimo incidente frontale a cui è stata sottoposta, comincia a vedersi incrinata la fiammante carrozzeria, lacrime che segnano un corpo in procinto di sbiadire, passaggi di gomma che su matita vincono a mani basse. La fiducia rappresenta il primo passo nella costruzione di un rapporto interpersonale, legame basato su solide fondamenta esprimenti l’inizio del capolavoro, l’apice a cui tutti bramano, cercando di mirarlo con la costanza paziente di un cecchino, quella vetta la cui ascesa porterebbe il prestigio agognato da annali storici, tramandando l’impresa ai posteri smaniosi di informazioni succulente: le delusioni della vita contribuiscono alla soppressione di un ipotetico nuovo incipit, sbagli pure minuscoli che, in luogo della resa in miniatura, aumentano, toccando quasi i limiti dell’esagerazione, la diffidenza concernente l’amore, un donare sincero in ricambio del suo mero gemello, affetto che, se da una parte non conosce alcuna recinzione imprigionante dove essere confinato, dall’altro lato comprende la sua immensa sregolatezza nella propria percezione, errori madornali che stigmatizzano in modo irreparabile, rinvigorendo e distruggendo lo scempio presente a seguito delle passate tempeste, odio che prende il suo posto per logorare e corroborare insieme nel futuro, più a fondo di ogni altra emozione possibile, nocciolo ormai defraudato di ulteriori scappatoie.
La mancanza si avverte non appena decide di svelarsi nella sua totalitaria vastità, un meccanismo assente che, indipendentemente dalle dimensioni caratteristiche e dal ruolo occupato, impedisce il funzionamento originario, intimando scorciatoie disastrose pur di giungere al traguardo, sgangherato obiettivo che non è più capace di mettere a fuoco: la diffusa predisposizione nell’elargire fandonie con disarmante spontaneità convince anche l’animo più speranzoso e incline alle occasioni della vita di non rimettersi nell’altro, un salto nel buio che potrebbe cambiare la sfera emotiva in subbuglio, amore che, di fronte alle sue fatidiche conseguenze, pare scemare a cascata, come onda lambente la spiaggia, un passo indietro seguito dai simili a venire senza accorgimenti di derivazione, congedo imposto dall’affetto che forse non nutrivamo davvero oppure che sapevamo non fosse ricambiato, due pesi e due misure che non dimostrano equità tra le parti, ma portano alla consapevolezza che non c’è motivo alcuno per dare senza ricevere, combattere senza difendere, vivere senza esistere.
L’impotenza nell’essere sé stessi può derivare dalla spinta violenta che la famiglia desta nel mentre del nostro piacevole riposo, amico ristoratore che, compromesso dall’incursione non preventivata né tantomeno anelata, con l’obiettivo di salvaguardarsi da venturi frequentatori, erige, mattone su mattone, un riparo tale da non essere in alcun modo scalfito, un’arma a doppio taglio che, con la sua presenza costante, ci trascina nell’oblio in edificazione, portatore infausto di scellerate conseguenze sul mondo circostante, una realtà dove appare per caso e toglie per scelta, inevitabilità a cui tener testa non è di certo un’impresa da poco conto poiché la corrente, remando nella direzione opposta a dove vorremmo disperatamente condurci, rende nebuloso il percorso nel quale vagare, una strada maestra di cui non conosciamo l’itinerario ma solo la destinazione, come se volesse convincerci a godere di ogni attimo fuggente, ore minuti e secondi che, al pari di terzi concreti, ci aiutano a sopportare l’avvenire, un orizzonte dal sapore del miraggio verso il quale il destino non ci permetterà di avanzare in solitaria, io con te, tu con me, sempre e per sempre.
La scialuppa di salvataggio, in certi casi, è proprio amare in tutte le sue forme: l’amicizia ci salva da noi stessi, erranti vagabondi del mondo che, a volte, senza la coscienza necessaria, esagerano nel sistemare sul gradino più alto del podio il non meritevole di analisi, un insipido scopo che dovrebbe tramontare di fronte all’alba del pregio, lasciando il trono all’idoneo del contesto in atto, evidenziando che, nella non utopia della vita, non solo noi deteniamo la facoltà di esistere, ma anche quell’altro, un diverso da non sottovalutare mai, neppure negli istanti in cui si scatenano i litigii, battibecchi che distruggono per cementare, sfregiano per rassettare, addolorano per sorridere, emozioni contrastanti che rafforzano un legame di scambievole esigenza, concedendo alla luce di riportare in auge il tutto meglio di prima; l’affetto che solo una madre può elargire è la medicina a tutti i mali, un antidoto che, al pari di un collante naturale, tiene unita una cellula intera, giogo che, in tutti i momenti, persiste senza venir meno alle antiche promesse, ricordi di un’esistenza andata che mai periranno e, per l’eternità, daranno un senso al regalo del futuro, assiduo intervento che caccia i dubbi e le preoccupazioni, una trappola mortale per la miriade di dolori sadici nell’aizzare in noi postumi indicibili, energia positiva che niente e nessuno potrà estinguere.
E così, una nuova angolazione si presenta alla nostra vista. Soccorsi dai nessi recuperati, scopriamo che sbagliare non proibisce l’identificazione del quadro nella sua interezza, punto della situazione che prima faticava a trapelare, capendo, alla fine, se ne vale la pena, giusto o meno che sia, uno spogliarsi di noi stessi per indurre l’altro a considerarci degni di ricevere il puro e semplice attaccamento, confessandogli, in questo modo, i nostri desideri più intimi, nudo d’arte che incanta all’esordio, sbaraglia durante e poi avvinghia a sé. Perdonare tratteggia le radici di un albero secolare, l’umanità che ci contraddistingue dalle fiere indomite, quel tassello di mosaico che, quando l’azione tempestiva certifica guadagno sicuro, vincola l’orgoglio ad arretrare, dando carta bianca al sentimento prossimo alla fioritura, sbocciare di novità che annienta l’obsoleta presunzione dell’antiquato, desueta autostima che, perdendo terreno utile, porta alla luce la verità celata, paradossale vaso di Pandora che, scoperchiato, libera propizi moti dello spirito per i quali si necessita il verbo osare, lancio senza paracadute che non prevede elucubrazioni sul dopo dell’ora.
Appare, quindi, il coraggio di ricominciare da capo, energia connaturata che autorizza il soggetto incubato di riprendere in mano la propria esistenza, un progetto assolutamente non semplice, poiché richiamante il pregresso, che però si rende effige del cambiamento radicale, il trascinarsi del corpo provato verso un domani più limpido, eco incessante di un passato da ricordare e serbare nel cuore, istruttivi attimi grazie ai quali precludersi opportunità non è la scelta migliore perché tutto ciò che si rompe si può riaggiustare: mettere in un angolo le aspettative di vita, accontentandosi degli ossi scartati dagli sprinter famelici, non è un introito da considerare volutamente, un utile da cui non si ricava i tesori in risposta alle nostre virtù, piccole perle rare che abbiamo in garanzia, agnelli che si trasformano in leoni quando il potere dell’ardire ci investe con lo tsunami del sostanziale, audacia di pochi in servizio per molti, quel fegato che, roso dalla bile dell’amore mancato, trae da esso il mantenimento, provare il tutto per tutto affinché le nostre chimere assumano reali sembianze, attestato finale di cui solo il tempo sarà testimone, scorrere delle lancette che impongono l’inatteso, il voltare pagina per scrivere l’epilogo al predecessore e il prologo all’erede.
Attraverso una narrazione in terza persona che, come scelta stilistica in combinazione al genere adottato del romanzo, destabilizza in positivo, ne L’amore nella fila 27 Eithne Shortall dipinge un oceano sconfinato di emozioni, tonalità sgargianti e tenui che si susseguono nell’armonica melodia orchestrata abilmente dall’autrice, tallonando, a distanza ravvicinata, il procedere incessante dei capitoli dalla numerazione pittoresca, originalità all’estremo che avvicenda vivace gli spot sulle vite dei personaggi di carta e inchiostro incontrati tra le pagine, strumento unico in grado di accompagnare il lettore in un’esistenza frusciante a sé e di ritrovarsi poi, durante il successivo istante del viaggio letterario, in una nuova avventura da scoprire. Tuttavia, non mancano dei passi falsi nella qui presente escursione della scrittrice: l’affidabilità del nostro Cupido non è così ben definita come viene presentata agli astanti, ma, anzi, dimostra una sorta di inefficacia lampante, incoerenza troppo marcata per nutrire nel pubblico quel beneficio del dubbio che dovrebbe apparire scontato in casi come questo; inoltre, l’assenza di un epilogo in cui si tirano le somme dell’avvenire di alcuni personaggi introduce un’esplicita pochezza nel fondamentale approfondimento, falla che guasta notevolmente l’insieme, imponendo uno storcere di bocca cozzante con questo libro serio eppure spensierato, fulcro dall’odore inconfondibile che sa raccontare e sdrammatizzare a pieno della vita reale.
Scheda libro
Titolo: L’amore nella fila 27
Autrice: Eithne Shortall
Casa editrice: DeA Planeta Libri
Pagine: 383
Anno di pubblicazione: 2018
Traduttrice: Alessandra Emma Giagheddu
Genere: Narrativa contemporanea, Romance
Costo versione cartacea: 16.00 euro
Costo versione ebook: 7.99 euro
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