Amo le spy stories, tutto merito de Le gazze ladre di Ken Follett, volume che ha sancito la mia iniziazione a questo filone ancora piuttosto ignoto alla sottoscritta. Quindi non potevo sottrarmi ulteriormente al fascino del celeberrimo Agente 007, capitolando davanti alla splendida edizione Adelphi di Casino Royale.
«Circondati di essere umani, caro James. È più facile combattere per loro che per dei prìncipi». Rise. «Ma non deludermi diventando umano anche tu. Perderemmo una splendida macchina».
Casino Royale costituisce il battesimo del fuoco in letteratura di James Bond, protagonista iconico già chiaramente delineato fin dal suo esordio: raffinato, lucido, letale. La narrazione, asciutta e tesa, quasi cinematografica, segue il punto di vista della spia, muovendosi a passi felpati tra le atmosfere fumose del Casinò e quelle suggestive della Normandia, ne traccia i pensieri e le mosse in una partita aperta in cui non si sa fino all’ultima, lapidaria riga chi sarà a calare l’asso, se gli amici, i nemici o la sorte. L’azione non manca, si nutre di dettagli, dialoghi – incisivi, a parole contate – e segreti celati dietro alla schiena, corre su un binario ma poi lo cambia a rotta di collo, mozzando il fiato per la sorpresa. Anche i sentimenti riescono ad affiorare nei paragrafi come benzina sull’acqua, densi, in grado di incendiarsi a una scintilla ed estinguersi in una fiammata, lasciandosi dietro l’odore acre dell’amarezza.
Missione breve ma intensa, sono certa che non sarà l’ultima.
Da giovane, ti sembra tanto facile distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, però man mano che invecchi diventa più difficile. A scuola scegli senza esitazione i tuoi eroi e i tuoi cattivi, e poi diventi grande con il desiderio di essere un eroe e di uccidere i cattivi.
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