Capita spesso di incrociare la penna di uno scrittore, lasciarlo macerare un po’ sullo scaffale dopo un fuggevole incontro durato un romanzo, per poi sentir nascere dentro la necessità di approfondire il rapporto lettore-autore. A questo giro è toccato a Neil Gaiman, conosciuto grazie ad American Gods, di cui ho deciso di leggere Cose fragili, raccolta di racconti e poesie scritti negli anni in momenti d’ispirazione, su commissione o per il semplice piacere di far volare le dita sulla tastiera.
Raccontare ciò che è fuori dall’ordinario è come raccontare i propri sogni: è possibile comunicare gli eventi di un sogno ma non il suo contenuto emotivo, il modo in cui un sogno può influire su tutta la giornata.
Ripensando a freddo a questo libro, mi galleggia davanti agli occhi l’immagine di una ragnatela cosparsa di gocce di rugiada, ciascuna legata alle altre dal filo di seta ma tutte diverse per le sfumature che riflettono, proprio come i racconti usciti dall’incontenibile fucina d’immaginazione di Gaiman. Ognuno di essi brilla nel suo piccolo per originalità, aprendo le imposte cigolanti del gotico o sorvolando le lande del fantasy, sbirciando nel pozzo nero dell’horror o fluttuando tra le visioni dell’onirico, eppure il suo stile impregna qualsiasi paragrafo arrivi a sfiorare, come inchiostro nero nell’acqua limpida, donando un’anima vibrante alle storie che plasma. Spicca in modo palpabile l’amore che lo scrittore riversa sui fogli ed è stato questo ciò che mi ha colpito maggiormente, trasformando la tiepida curiosità in calda stima. Chissà che non diventi un idillio, visto che la mia avventura con lui è appena cominciata.
I racconti, come le persone e le farfalle e le uova di usignuolo e i cuori umani e i sogni, sono cose fragili, fatti con niente di più forte e duraturo che ventisei lettere e una manciata di segni di interpunzione. Oppure sono parole nell’aria, composte di suoni e di idee – astratte, invisibili, che svaniscono appena pronunciate – e cosa può esserci mai di più fragile?
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