Quante volte ho visto il capolavoro di Miyazaki? Così tante che pensavo avessi rovinato irrimediabilmente il dvd, ma, ancora oggi, il signorino funziona che è una meraviglia. Per fortuna, perché altrimenti impazzirei. Diventerei matta senza uno dei cartoni che più mi ha conquistata, un film d’animazione che ogni volta mi emoziona sempre tantissimo, nonostante sappia a memoria ogni battuta e ogni scena. Quando ho scoperto che Il castello errante di Howl di Miyazaki era ispirato al libro omonimo di Diana Wynne Jones, non potevo far altro che ordinarlo, insieme ovviamente ai due suoi seguiti. Ebbene sì, è solo l’inizio di una trilogia, tre romanzi di duecento pagine e rotte introvabili, piccoli tesori che non potevano mancare nella mia libreria. Assolutamente no, non bestemmiamo.
Nella terra di Ingary, dove realmente esistono cose come stivali delle sette leghe e mantelli che rendono invisibili, essere il primogenito di tre fratelli è considerata una sfortuna piuttosto grossa. Colui che nasce per primo, infatti, è anche quello destinato a sbagliare per primo; e sarà ancora peggio se sarà l’ultimo ad andarsene di casa in cerca di fortuna…
Sophie Hatter è la primogenita di tre sorelle e quindi, data la sua posizione, si sente in dovere di fare ciò che è necessario e giusto, nonostante magari non rientri nei suoi desideri più intimi. Dopo la morte del padre, Fanny, la seconda moglie del signor Hatter, decide di sistemare le figliastre, la nostra protagonista e Lettie, e sua figlia legittima, Martha, in modo tale da riservar loro un futuro roseo, visto che i soldi per mantener loro gli studi ormai sono finiti: la più giovane viene sistemata dalla signora Fairfax, una fattucchiera che quindi le insegnerà le arti magiche; la figlia di mezzo viene affidata alla signora Cesari, che possiede una pasticceria sulla Piazza del Mercato lì a Market Chipping; e infine Sophie, lei porterà avanti il nome della cappelleria di famiglia, lavorando in quel negozio guarnendo, secondo la moda in voga, i cappelli. Tutto sembra sistemato a dovere, non è vero? All’inizio, la nostra protagonista pensava davvero di star bene, ma effettivamente più rimane a lavorare nella cappelleria di famiglia più una tristezza prende in lei il sopravvento. Forse per cambiare aria, forse per vedere una faccia amica, Sophie decide di uscire per far visita a Lettie, da Cesari, durante il Calendimaggio, una festa popolare del luogo, anche se girava voce che nei paraggi si aggirasse il castello errante di Howl, un Mago potente, famoso nel corteggiare le ragazze e mangiar loro il cuore o succhiar loro l’anima o magari entrambe le cose insieme. Durante il tragitto, la ragazza si fa sopraffare dai festeggiamenti, dalle urla della gente, spaventandosi semplicemente dopo aver incontrato un affascinante uomo il cui invito a uscire viene declinato in maniera sbrigativa dal “piccolo topino grigio”. Arrivata alla pasticceria, Sophie si ritrova di fronte Martha, camuffata con le sembianze della sorella grazie a una pozione magica: lei e Lettie si erano messe d’accordo in quanto le due erano scontente del destino che Fanny aveva scelto loro. Dopo un breve dialogo, in cui la sorella più piccola cerca di far aprire gli occhi al nostro topino riguardo al suo futuro senza felicità, Sophie torna alla cappelleria, dove entra una donna in cerca di un acquisto da fare. Ciò che la ragazza non si aspetta è certamente di trovarsi di fronte la Strega delle Terre Desolate che, per un qualche arcano motivo la maledice, trasformandola in una vecchietta in età avanzata. Cosa può fare ora Sophie? Come risolvere la situazione? Non le resta che prepararsi e fuggire da quel luogo, sperando di trovare una soluzione, sperando di incontrare qualcuno che possa aiutarla a ritornare al suo aspetto originario.
Nel secondo libro, invece, Diana Wynne Jones ci catapulta nella parte meridionale delle terre d’Ingary, precisamente nei Sultanati di Rashpuht, portandoci così a conoscere il protagonista de Il castello in aria, un giovane venditore di tappeti di nome Abdullah. A Zanzib, il ragazzo possiede un modestissimo emporio, in un angolino remoto del bazar: suo padre ha lasciato in eredità il resto del patrimonio alla famiglia della sua prima moglie, evitando così di consegnare nelle mani del figlio tutto ciò che possedeva. Il motivo? Abdullah non ne è sicuro, ma molto probabilmente questa specie di astio nutrito nei suoi confronti dal genitore è dovuto a una profezia fatta alla sua nascita, profezia che però il nostro protagonista non conosce o comunque non si ricorda a pieno. Fin dalle prime pagine, notiamo subito come Abdullah sia un forte sognatore: nonostante sappia la sua provenienza e sia, fuor di dubbio, figlio di suo padre vista la somiglianza nell’aspetto esteriore, il nostro venditore di tappeti crede, in cuor suo, di essere l’erede di un qualche regno lontano, rapito in fasce da Kabul Aqba, fuggito fortunatamente dal furfante e salvato dal suo genitore che, quindi, nella sua storia non sarebbe legato effettivamente a lui col sangue.
Sta proprio fantasticando, aggiungendo sempre più dettagli alla sua ipotetica vera vita, quando entra all’emporio un uomo alto e sporco, con in mano un tappeto in condizioni pietose, con un orlo sfilacciato e molto sudicio a una prima occhiata. Perché per una stuoia così malandata lo straniero vuole cinquecento monete d’oro? A detta sua, il tappeto logoro e da buttare è magico. Dopo una breve dimostrazione di veridicità dei fatti, i due iniziano le trattative e, pagando duecentodieci pezzi d’oro, finalmente Abdullah fa suo questo nuovo pezzo che sta già immaginando di rivendere al Sultano o magari al Gran Visir per guadagnare più denaro. Però, il nostro protagonista inizia a riflettere.
Doveva esserci qualche inghippo. C’era un trucco di cui Abdullah aveva sentito parlare spesso che, però, aveva per protagonista cavalli o cani. Uno vendeva a un agricoltore o a un cacciatore credulone un superbo animale per un prezzo incredibilmente basso, sostenendo che quella cifra, seppur modesta, l’avrebbe salvato dal morir di fame. Il contadino, o il cacciatore, del tutto soddisfatti, mettevano il cavallo nella stalla – o il cane appena acquistato nella cuccia. Ma il mattino successivo il proprietario non trovava più l’animale che, durante la notte, si era liberato ed era tornato dal suo padrone.
Per questo motivo, prima legando il manufatto magico a uno dei pali portanti il soffitto, poi ponendolo sopra la pila dei tappeti più costosi che possedeva e che usava come letto, il ragazzo ci si addormentò sopra. Che fareste voi se, dopo una bella dormita, vi svegliereste e vi ritrovereste in un giardino, un’enorme distesa verde che magari popola parecchie delle vostre fantasie? Potreste sempre leggere il libro e vedere cosa Abdullah decide di fare per venire a capo di questa faccenda.
E per finire, approdiamo al terzo e ultimo capitolo di questa trilogia della Jones, La casa per ognidove. Zia Sempronia sembra essere irremovibile: Charmain dovrà badare alla casa del suo prozio, William Norland, mago non solo notorio ma anche molto potente, lì a High Norland. Dopotutto, la signora Baker non può occuparsene, dato che si trova impegolata con gli innumerevoli ordini di torte nuziali al lavoro con il marito, e quindi la scelta ricade automaticamente sulla figlia. Perché mai poi una casa ha bisogno di sorveglianza? E soprattutto dove se ne deve andare lo stregone?
– […] ha un nodulo in pancia e solo gli elfi lo possono aiutare. Per curarlo bisogna che lo portino altrove e, capisci anche tu che qualcuno dovrà pur badare a casa sua. Gli incantesimi, sai com’è, se ne scappano se non c’è nessuno a sorvegliarli. E sono davvero troppo occupata per farlo io. Pensa solo al lavoro per i miei randagi…
Più chiaro di così, si muore. La ragazzina non ha scelta: anche se non è molto propensa ad accudire un mago vetusto che mai aveva visto prima, zia Sempronia ha organizzato tutto quanto; quindi tirarsi indietro è fuori discussione. E se invece Charmain non fosse così tanto contraria a questa specie di “avventura”?
La verità era che questa era l’occasione che aveva tanto atteso. Era stanca della sua buona scuola e molto stanca di abitare a casa, con sua madre che la trattava come una tigre della quale nessuno è certo sia addomesticata, e il padre che le proibiva di fare questo o quello perché non era bello, prudente o normale. Era l’occasione di andarsene da casa e fare qualcosa – l’unica cosa – che Charmain avesse sempre voluto. Valeva la pena di accontentarsi della casa del mago anche solo per questo.
Però, prima di intraprendere questa impresa, il pomeriggio precedente alla partenza, la ragazzina si sente così ardita e coraggiosa dal fare quello che desiderava da sempre: scrivere una lettera al re di High Norland, affinché lui le permettesse di aiutarlo, assieme alla principessa sua figlia, Hilda, a smistare e catalogare i tomi della Real Biblioteca. Perché è proprio così: Charmain adora leggere, ama stare in mezzo ai libri, perdersi in essi e passare con loro tutto il tempo a sua disposizione. Sarebbe un sogno per lei lavorare in quel grande rifugio di testi, rari e non, importanti e non, insomma il paese dei balocchi per noi lettori, forse più enorme della biblioteca del principe Adam ne La Bella e la Bestia. E ho detto tutto.
Il giorno dopo, si parte di buon’ora alla volta della casa del prozio William dove la ragazzina intravede il vecchio mago, per la prima volta, ma non fa in tempo a chiedergli spiegazioni su cosa fare in casa mentre lui non ci sarà, a informarsi su tutte le questioni concernenti la dimora dello stregone, che arrivano degli elfi a portarlo via. A questo punto, riuscirà Charmain adempiere al compito senza intoppi? O per caso salteranno fuori delle questioni straordinarie che dovranno essere risolte? Come scoprirlo? Come al solito, e cioè leggendo il libro.
Diana Wynne Jones è un mito. Non c’è parola migliore per definire quest’autrice: ha creato tre storie, differenti eppure legate tra loro per via di alcuni personaggi sempre presenti e ricorrenti, dettagliate, ricche, introducendo tanti enigmi da svelare, molti misteri da scoprire e rivelare, come se aggiungesse, in linea al progredire della narrazione, tenendo il passo con i capitoli, un tassello al puzzle che solo a lettura ultimata noi lettori potremo visionare nella sua interezza e quindi comprendere totalmente. La trama è una fitta rete di intrighi, disparati, che sembrano essere scollegati tra loro fino a quando, più ci si inoltra nella storia, più si intuisce, fino ad esserne ovviamente certi, che tutto quanto, invece, è connesso, formando, perciò, un singolo filone narrativo i cui elementi sono stati utilizzati per rappresentare un solo e unico disegno.
Oltre alla sua capacità rimarchevole di riuscire a maneggiare tanti dati diversi facendoli però combaciare tra loro, il punto di forza della scrittrice è in maniera assoluta la sua bravura nelle descrizioni minuziose, non solo delle ambientazioni, ma anche dei vari personaggi. Quando mi sono imbattuta la prima volta in queste delineazioni particolari e precise, proprio per la loro caratterizzazione accurata, ho avuto la sensazione di trovarmi esattamente dove i protagonisti vivevano le loro avventure, come se invece di essere sul divano a leggere, io mi trovassi con Sophie sul castello errante di Howl, o con Abdullah in giro sul tappeto volante, o meglio ancora, data la mia passione per i libri, con Charmain all’interno della Real Biblioteca. Essere catapultati nella storia e quindi esserne davvero coinvolti non è una consuetudine, anzi è una scoperta che si spera sempre di avere durante una qualsivoglia lettura, ma non è detto che sia ovvio trovarsela davanti: perciò, ho amato Diana Wynne Jones perché mi ha permesso di vivere realmente ciò che ha narrato, di essere protagonista anche io delle sue storie. A farmi sentire più “a casa”, oltre alla mia immedesimazione quasi inevitabile, il divertimento che non manca mai mi ha coinvolta del tutto: oltre a incontrare nel corso della lettura dei personaggi solitamente simpatici e affabili, la stessa autrice, decidendo di utilizzare un linguaggio semplice ma che comunque sembra richiamare tempi andati attraverso un certo livello di solennità, esprime la sua vena ironica, con delle spiritosaggini, delle situazioni surreali che i protagonisti vivono, ponendo una sorta di sorriso anche di fronte alle avversità più nere e più ardue da superare una volta per tutte.
Perciò, a conti fatti, non mi pento assolutamente di aver letto questa trilogia, di aver finalmente conosciuto la storia che ha permesso a Miyazaki di creare uno dei film d’animazione più belli di tutti i tempi, un cartone che, posso ammettere senza problemi, è stato spodestato dal trono che occupava nel mio cuore dal libro della Jones, un libro divertente, frizzante, magico ma nel contempo reale, che ci insegna a sorridere di tutto, a non perdere la speranza e soprattutto a credere nell’amore, quel sentimento vero che scaturisce nonostante un’esteriorità camuffata, nonostante tutto, nonostante tutti.
– Sono la più vecchia di tre sorelle e sono un vero fallimento!
– Sciocchezze! Sai qual è il tuo problema? È che non la smetti mai di pensare…
Scheda libri
Titolo: Il castello errante di Howl, Il castello in aria, La casa per ognidove
Autore: Diana Wynne Jones
Casa editrice: Kappalab
Pagine: 245, 202, 201
Anno di pubblicazione: 2013, 2013, 2014
Traduttori: D. Ventura, D. Ventura, F. Guerra
Genere: Fantasy
Costo versione cartacea: 15.00 euro
Costo versione ebook: –
9 Luglio 2016 at 10:57
Me l’hai consigliata talmente tante volte che prima o poi la dovrò leggere ahahah
9 Luglio 2016 at 13:30
Dai che magari è la volta buona che ti convinco 😀 ahah