Appena terminata la sessione d’esami estiva all’università, volevo dedicarmi a una lettura personale per prendermi una pausa meritata e ricaricare così le batterie. Ho chiesto aiuto a Jackdaw per la scelta, visto che sono un’eterna indecisa sotto questo punto di vista, proponendole delle alternative tra cui optare, tutte opere decisamente brevi per una celere avventura letteraria senza impegno. Il suo occhio critico si è posato su Le nostre anime di notte di Kent Haruf, attirata dal titolo tanto accattivante quanto particolare del romanzo: non le sarò mai abbastanza grata per questo perché il mio primo esperimento con l’autore statunitense si è dimostrato sopra qualsiasi più rosea aspettativa. Una volta conosciuta Holt, non la si vorrebbe più lasciar andare.
Siamo in una cittadina di campagna del Colorado orientale che sembra quasi essere sospesa nel tempo e nello spazio, un luogo dove le esistenze di ognuno trascorrono lente e quiete nelle placide acque di una routine quotidiana fatta di piccole grandi cose che rendono sicure e chiare le vite dei suoi abitanti.
In un paradiso di tranquillità come è Holt, dove solo i pettegolezzi potrebbero rendere meno monotono e più frizzante il trantran di ogni giorno, non poteva di certo passare inosservata la nuova consuetudine serale di Louis Waters: dopo una telefonata della vicina Addie Moore, in una sera qualunque di maggio, i due anziani vedovi si mettono d’accordo per trascorrere assieme le notti nel letto di lei, su richiesta della donna stessa, senza alcuna malizia di fondo, ma semplicemente come deterrente a una solitudine a cui da troppo era abituata e che si sentiva ora pronta a debellare ed accantonare in via definitiva. All’inizio l’uomo aveva tentennato nell’acconsentire a questa strana richiesta per paura delle conseguenze che sicuramente sarebbero sorte, ma, dopo l’ammissione di Addie riguardo al suo non interesse per qualsivoglia maldicenza in merito, Louis non ha trovato altre obiezioni da rimostrare alla signora di settant’anni. Ed è proprio così che i due vedovi, vicini di casa in Cedar Street da una vita ma praticamente estranei o comunque ignari della maggior parte dell’esistenza dell’una e dell’altro, cominciano una conoscenza che mai si sarebbero attesi, un legame di amicizia che, con le sue forza e natura dirompenti, li sorprenderà in una maniera lontana da qualsiasi aspettativa che nutrivano a riguardo, tanto da sbigottire e stravolgere non solo loro stessi ma anche l’intero paesino. Se in modo positivo o negativo, non si può sapere… A meno che non vi immergiate ne Le nostre anime di notte, attraverso la cui lettura non potrete far a meno di innamorarvi dello stile prosaico e lirico contemporaneamente di Kent Haruf.
Dopo un’intera vita passata in compagnia delle persone che amiamo, scelte oculate fatte nel corso degli anni del cui intrattenimento costante avevamo deciso di circondarci fin dagli esordi della nostra esistenza, le uniche in grado di renderci sereni e felici con semplici gesti e parole capaci di toccarci nel profondo, lasciando lì un’impronta indelebile che mai potremmo cancellare e tantomeno dimenticare, anche in presenza di evidenti avversità da sopportare pazientemente, sempre e comunque nell’imperterrita ricerca del momento giusto durante il quale sconfiggere tali fatalità in via definitiva, inevitabile e silenziosa si mostra, senza preavviso e di solito nell’istante più inopportuno, la solitudine, una strana entità che, come un’arma a doppio taglio, potrebbe distruggerci e rinvigorirci al tempo stesso, un Giano bifronte che potrebbe rivelarsi in due forme distinte eppure simili, valenze differenti per il medesimo concetto: da una parte, abbiamo un’alleata indispensabile a cui poter fare affidamento per fuggire dalle brutture che il destino decide di porre sul nostro cammino, un sospiro di sollievo che reca giovamento dopo aver trattenuto il fiato oltre quel tempo consentito per non sentirci soffocare dalle esperienze che, pressanti, hanno segnato e tutt’ora incidono la nostra pelle già troppo martoriata, praticamente una scialuppa di salvataggio da utilizzare quando l’oppressione cala come un’ombra anomala sul nostro essere, un rifugio che ci fa chiudere in noi stessi e ci tutela dal mondo circostante, pozzo senza fondo da cui attingere nuovo buio con il quale offuscare la nostra luce interiore ed esteriore; dall’altro lato, invece, essa può essere vista alla stregua di una compagna di viaggio scomoda alla quale doversi abituare per non soccombere sotto il suo peso ingente ed ingombrante, non trovando altra soluzione se non vestendo i panni del mitico Atlante che, cosciente del suo ruolo, sorregge la Terra sulla sua schiena, un falso amico che in principio sembra essere sincero nei nostri confronti fino a quando, per proprio tornaconto, non decide di voltarci le spalle e lì pugnalarci, incurante del male che potrebbe scaturire da quella ferita, scoprendolo egoista per aver anteposto i suoi comodi al sentimento che tecnicamente avrebbe dovuto provare nei nostri confronti, un’emozione puerile e inconsistente col senno di poi, una banale parvenza di quello che in realtà doveva essere, il miraggio di un’oasi in cui bearsi e alla fine rifocillarsi.
A tutto, però, c’è un limite: infatti, più si riversa acqua in un vaso, più il suo contenuto si avvicina pericolosamente alla capienza massima consentita, un confine ultimo che, a una prima occhiata, potrebbe apparire lontanissimo, al pari di un puntino oltre la parallela dell’orizzonte, un minuscolo granello di polvere per il quale non ci dovremmo assolutamente preoccupare, dato che non è poi così prossimo il suo avvento, ma che, invece, se aguzziamo la vista, risulta talmente vicino da poterlo davvero guardare, davvero percepire e quindi studiare in tutte le sue caratteristiche sfaccettature, un salto nel buio oltre il quale la sopportazione esplode e lascia spazio solo alla desolazione più grande, esponenziale tripudio a un’esistenza spaiata e perduta per sempre, dimostrazione lampante che il nostro tempo ormai è passato e non tornerà più.
O forse no? E se trovassimo anche solo un’unica possibilità di rinascita, perché non prenderla al volo e viverla, senza pensieri, evitando di focalizzarci su ogni eventuale timore che potrebbe generarsi da e grazie a essa, serenamente come abbiamo fatto da che ci ricordiamo, nonostante tutto e tutti? È giunto, perciò, il momento di prendere in mano ciò che resta di noi e di ingegnarci per capire quale scappatoia farebbe al caso nostro, una via di fuga che consentirebbe al nostro essere arenato da anni di immettersi in nuove correnti alla volta di lidi inesplorati, spiagge deserte che ci impauriscono per la loro imprevedibilità e selvaggia natura, ma che ci intrigano e attirano in modo magnetico la nostra attenzione, una particolare falena verso la sua personale fiamma, consapevoli di poterci ferire irreparabilmente ad ogni passo che compiremo, coscienti di desiderarlo oltre ogni dubbio per ottenere quella felicità che avremmo voluto intrappolare nella nostra rete anzitempo, edotti di dar finalmente una scossa col defribillatore alla nostra routine abitudinaria, claustrofobica vita che ora non riusciamo e non vogliamo più tollerare.
In realtà, basta poco per evadere da una simile prigionia e per trasformare un qualsiasi inferno nel suo paradiso terrestre gemello, calda miniatura accogliente di un giardino senza eguali, colma di spunti dai quali attingere, di panorami mozzafiato di cui bearsi, di fermi immagine con i quali scolpire i nostri mente e cuore di nuovi ricordi, rimembranze di una vita vera vissuta a pieno, indipendentemente dal tempo concessoci per farlo.
È sufficiente una decisione mirata e tutto può cambiare.
Dalla cima al fondo, dal fondo alla cima.
Il mutamento non fatica, quindi, ad arrivare, travolgendoci nei panni di un’alta marea improvvisa, portando con sé anche le ondate che simboleggiano le conseguenze ovvie di una simile azione, effetti destabilizzanti che potevamo aspettarci ma sui quali non ci eravamo soffermati ancora, sia perché timorosi che la loro essenza devastante e scioccante ci avrebbe fatti desistere dai nostri nobili intenti, riportandoci perciò al punto di partenza e rinchiudendoci una volta per tutte nella nostra gabbia dorata, alloggio attrezzato con ogni comfort, certo, però privo di quella gioia che andavamo cercando e pregno della solitudine che volevamo lasciarci alle spalle, sia perché inutile è il riflettere oggi sulle possibili ma non sicure ripercussioni in un domani, imprevista probabilità che può sicuramente sorgere e disturbare la nostra esistenza, una svolta obbligata da tenere in considerazione nella strategia che abbiamo adottato, evitando, tuttavia, che coinvolga immantinente il nostro animo, andandolo magari ad agitarlo in un maremoto di elucubrazioni urlanti che ora come ora non hanno alcuna importanza.
L’imprevedibile, allora, bussa alla nostra porta che, aperta, ci pone davanti a una cruda verità da assorbire e digerire, un pugno allo stomaco che per qualche secondo ci pietrifica sulla soglia, interdetti di fronte alla concretezza dei fatti: un muro immenso e all’apparenza indistruttibile di pregiudizi si staglia sotto ai nostri occhi sgranati che, sgomenti, si accertano, a poco a poco, di quanto sia improbabile, o addirittura impossibile, oltrepassarlo indenni, senza abrasioni sulle nostre mani per una potenziale scalata, senza contusioni dovute alle rovinose cadute lapalissiane sulla dura e spoglia terra.
Ogni diceria comporta un graffio.
Ogni voce di corridoio, appena udibile ma inconfondibile, equivale a un sonoro schiaffo in pieno viso.
Tutti quei pettegolezzi, diffusi di uscio in uscio, che si spargono al pari di una macchia inarrestabile di olio, danno vita a vere e proprie prese di posizione, riflessioni figlie di una mentalità decisamente chiusa e non disponibile al dialogo, ermetica visione di un mondo che si è costruito secondo canoni considerati “normali” da non poter violare in alcuna maniera, opinioni palesemente sbagliate ma comunque ritenute valide dette solo per dar aria alla bocca proprio negli attimi in cui, invece, si dovrebbe tacere e ascoltare per cercare quantomeno di comprendere e capire la situazione in atto, entrando in sintonia con essa e quasi vivendola sulla propria pelle, permettendo, solo dopo un suo attento studio al microscopio, ai propri pensieri di tradursi in voce e concedere un ponderato punto di vista che si dimostra edificato su fondamenta solide e indistruttibili, prova che ognuno è in grado, se lo vuole davvero, di ragionare e soffermarsi su ciò che lo circonda, prima di consentire alle sue parole di investire eventuali e plausibili interlocutori.
Resistere alle critiche è il primo passo da compiere per poter continuare a vivere il proprio sogno diventato realtà, ma, purtroppo, molto spesso, veniamo sopraffatti da un’infinita stanchezza, accumulata nel corso del tempo a causa dei persistenti affronti subiti e di quelle malelingue che abbiamo cercato sempre e comunque di zittire, non prestando loro ascolto, ignorandole volutamente e con forza, sovrastandole col nostro sorriso ritrovato e una serenità che ha imparato ad accompagnarci per mano in tutti i momenti necessari, aiutandoci a rialzarci dopo ogni traversia, porgendoci il braccio per non inciampare e camminare con sicurezza, illuminando con una torcia i nostri passi, brillante sorgente vitale in grado di fendere quell’oscurità esistenziale che vuole nella maniera più assoluta inghiottirci e convincerci alla resa definitiva. Sfortunatamente, prima o poi, la suddetta energia che ci ha mosso fin dall’inizio si esaurisce, abbandonandoci inerti e inermi, due consonanti differenti, un unico stato d’animo che ci sfinisce e ci abbatte ulteriormente, come se fosse possibile incappare nell’ennesimo sgambetto del destino, rassegnandosi a subire nuovamente un’altra beffa, nuova tacca da aggiungersi alle già ottenute.
Affrontare un’ulteriore sciagura da soli non è proprio la scelta ottimale. Fronteggiarla in compagnia, al contrario, è chiaramente la strategia migliore da attuare, soprattutto se chi ci assiste in questo percorso tortuoso si è scoperto legato a noi nella maniera più pura e potente, attraverso l’amore che nasce e cresce anche nelle persone più impensate, quelle che si credevano ormai immuni ed esenti da anni, pensando che non sarebbero caduti nel bel tranello di questo sentimento, schivandolo e scartandolo con precisione chirurgica: è una piccola carezza o una parola essenziale ciò che serve per fare la differenza, rendendoci schiavi totali dell’affetto, ridefiniti impavidi grazie al conforto che possiamo trarre dalla nostra metà, ricambiandola totalmente e senza alcuna restrizione, imparando a guardare davvero cosa abbiamo intorno e a vederlo per ciò che è, trovando possibili compromessi risolutivi da attuare a seconda della situazione corrente. Le alternative di certo non mancano, ma in ognuna deve rimanere sottintesa la speranza, la sola che, di fronte a un generale sgretolamento delle nostre vite, continua ad esistere perché, come dice il proverbio, è sempre l’ultima a morire.
Le nostre anime di notte risulta essere una lettura coinvolgente capace di avvincere il lettore nelle spire delle sue pagine, catturando completamente la sua attenzione e spingendolo a vivere sballottato in un ciclone di emozioni, sentimenti acuiti fino all’apice della loro possibilità espressiva grazie a una narrazione che presenta il romanzo di Kent Haruf al pari di una chiacchierata spensierata e fresca, nella quale i protagonisti, Addie e Louis, si raccontano e si svelano al pubblico che segue le loro vicende da vicino, come se venisse teletrasportato direttamente nella storia, come se vivesse lì a Holt anche lui, un potenziale vicino di casa dei due vedovi in Cedar Street. Ogni capitolo descrive una scena particolare, un’istantanea specifica a cavallo di un momento congelato nel tempo, un fermo immagine che, attraverso la non adozione della classica punteggiatura identificativa per i discorsi diretti, è reso più fluido e scorrevole, tanto da sorprendere il lettore per la sua grande celerità, caratteristica nascosta eppure visibile, celata e palese contemporaneamente. Anche lo stile dell’autore, quasi in simbiosi al racconto, richiamandolo quale eco, trascina senza pietà, evitando però di forzarne la lettura, dimostrando da una parte una leggerezza non indifferente e, dall’altro lato, una profondità ben sviluppata, collocata perfettamente nel suo obiettivo di insinuarsi nel cuore del lettore e lì attecchire, non lasciandolo più andare e garantendogli acute riflessioni che certo germineranno in lui: chi legge, infatti, si troverà nella posizione, forse scomoda, di domandarsi e porsi quesiti importanti a cui magari mai aveva pensato di rispondere, interrogativi che però ora lo toccano in prima persona, un’immedesimazione che potrebbe far paura in quanto rimane alta la possibilità di cader preda nel dar voce a giudizi sbagliati, dati grossolanamente e superficialmente, vulnerabili quindi al commettere errori perché, dopotutto, si è sempre umani e molto spesso inconsapevoli.
Amo questo mondo fisico. Amo questa vita insieme a te. E il vento e la campagna. Il cortile, la ghiaia sul vialetto. L’erba. Le notti fresche. Stare a letto al buio a parlare con te.
Scheda libro
Titolo: Le nostre anime di notte
Autore: Kent Haruf
Casa editrice: NN Editore
Pagine: 134
Anno di pubblicazione: 2017
Traduttore: Fabio Cremonesi
Genere: Narrativa contemporanea
Costo versione cartacea: 17.00 euro
Costo versione ebook: 8.99 euro
Link d’acquisto: Amazon
3 Ottobre 2017 at 14:07
Ciao Lady. Quale modo migliore di ricaricarsi se non leggendo un buon libro?!
Io questo non l’ho mai letto. Ma da quello che ho letto, dalla trama che sei riuscita a farmi percepire, penso che ci farò un pensierino. Forse così, riemergo dall’oblio delle delusioni letterarie in cui sono incappata. <3 <3
3 Ottobre 2017 at 15:40
Eheh non te ne pentirai, Angela 😉 <3 Grazie per essere passata :3