Se non l’avete ancora capito, quando la sottoscritta si impegna, dà sempre tutta sé stessa per fare il meglio e ottenerne almeno un’oncia indietro, il compenso di maggior valore in risposta alla dedizione spesa affinché il risultato finale sia ciò che i lettori stavano cercando con trepidante ed esasperante attesa. Perciò, è comprensibile, essendo una persona coerente fino all’ossessione, che, pure durante quei periodi in cui i blocchi rispettivamente del recensore e del lettore mi attanagliano il cervello in una morsa prepotente a cui non si riesce a trovare scampo, io mi erga sul podio e vinca la medaglia d’oro.
A questi fastidiosi ingredienti, per mia sfortuna ad alto contenuto calorico, senza scomporci troppo per l’ennesima nuova presenza nella ricetta già forse abbastanza ricca, aggiungiamo la ciliegina sulla torta, Manhattan Beach di Jennifer Egan, quel graditissimo volume della cui copia digitale la Mondadori ha voluto omaggiarmi tempo fa, proponendomi, col senno di poi, uno dei romanzi più belli che abbia mai letto a partire da quest’anno: vi rendete conto che ho dovuto posticipare la suddetta avventura letteraria per colpa di quel carico immenso sopportato a malapena dalla mia povera mente desiderosa di abbandonarsi in qualche storia non sua, immergendosi in pagine e pagine dove caratteri stampati di ogni tipo l’avrebbero sommersa di emozioni a non finire? Parliamone.
Anna Kerrigan è una ragazza di diciannove anni che da poco ha iniziato a lavorare al cantiere navale: entrata alle dipendenze del signor Voss nel laboratorio adibito alle misurazioni con il micrometro per ispezionare e garantire che le parti prese in esame siano regolari, ha ottenuto l’incarico facilmente poiché la Seconda Guerra Mondiale in corso ha chiamato a sé tutti gli uomini in grado di sostenere il peso del conflitto sulle loro aitanti membra e, in mancanza di altra manovalanza, le donne hanno dovuto prendere il loro posto, rimpiazzandoli momentaneamente fino a nuovo ordine. Perciò, appena è sorta la tale occasione da non perdere, sentendo nel profondo di voler contribuire anche lei in qualche modo all’ardente condivisione generale, non ha potuto lasciarsela sfuggire, optando, inoltre, all’abbandono degli studi al Brooklyn College che mai l’avevano davvero interessata.
È nei pressi del Pontile C che la protagonista femminile di Manhattan Beach incontra Nell, un’altra dipendente del porto che si occupa di tracciare in terra col gesso i vari componenti delle navi a grandezza naturale, un volto che già aveva notato grazie alla foto pubblicata sul Brooklyn Eagle che l’ha resa simbolo del sesso femminile insediatosi da settembre in quell’ambiente, situazione a sé che probabilmente non le avrebbe ritenute importanti se le vicende non avessero preso la piega corrente.
Con lo scopo di voler usare la bicicletta attraverso cui il peperino biondo scorrazza in giro, Anna stringe un’amicizia improbabile con lei, programmando anche un appuntamento per la serata, un’uscita che la porterà al Moonshine, un night club del presunto gangster Dexter Styles, un nome che la signorina Kerrigan ricorda di aver già sentito nominare dal padre Eddie, volatizzato nel nulla cinque anni prima.
Un incontro fortuito può cambiare una vita intera.
Fin dagli albori dell’esistenza, nei meandri del nostro piccolo cuore anelante di nuovi battiti, prendono forma i sogni, desideri reconditi di un universo parallelo in cui noi, abituati alle ennesime fatiche non ricambiate e alle enormi rinunce defraudate di un guadagno meritato, respireremmo un’aria diversa, ossigeno non inquinato dai preconcetti della collettività ed esente dai veleni maldicenti di infiniti discorsi che senso non ne hanno, atmosfera chimerica in cui finalmente la giostra gira nel verso a noi più confacente, accogliendoci in un caldo abbraccio dove la fortuna ha assunto il ruolo fondamentale e accentratore dell’impercettibile mondo nel quale i sottoscritti incarnano i suoi unici abitanti indiscussi, forma mentis di cui vantarsi diventa bene di prima necessità, pane quotidiano dei nostri giorni da ora in avanti.
Raggiungere l’utopia rincorrendo la sua scia luminosa identifica il perno intorno cui i cardini ben oliati del nostro caparbio subconscio ha fortemente deciso di ruotare, obiettivo primario verso il quale, sospinti dalla marea dirompente di un’avventura senza pari né ritorno, percepiamo un’inclinazione di dimensioni ciclopiche, mastodontica calamita che, attraendoci completamente, induce il nostro essere ad affidarsi a ogni possibilità pur di ottenere l’ambita preda, molteplici strumenti che fanno a gara pur di vedersi adottati, rendendoci protagonisti di un’attitudine incipiente verso l’illimitata gamma di occasionali prospettive, allarmanti stratagemmi di dubbia natura che, sebbene col senno di poi possano malauguratamente imporre un qualsiasi tipo di rimorso, rendono scacco matto all’indifesa selvaggina di cui cibarsi con la voracità del prolungato digiuno affinché tutti i benefici che potrebbe offrire vengano colti al pari di frutti maturi donati da un albero in attesa del momento opportuno nel quale chi di dovere decide di sollevarlo dal suo oneroso incarico di facchino immobile a tempo indeterminato di stagione: la carica adrenalinica della riuscita finale infonde il giusto vigore tramite cui sbaragliare qualsiasi ipotetico ostacolo che, evidentemente, si frapporrà tra noi e la meta, minuti e grandi sbarramenti che non hanno abbastanza dominio da relegare a un anfratto isolato la ferma consapevolezza della conquista imminente, un do ut des concesso dal pressante volere ad ogni costo, potere che, amalgamandosi alla fissazione, erompe con fragore e incredulità.
La dimostrazione che, prima o poi, la cocciutaggine raccoglie sempre il proprio seminato è il successo dell’impresa, compromessi di una vita concentrati nel tripudio esultante del termine da cui iniziare davvero, discesa a patti obbligata per salire a inedite vette a livello delle quali applicare il segno del proprio passaggio, obelisco totemico che, con lo scorrere dei secondi, conduce per mano un lento evolversi del rispetto, ulteriore ottenimento dell’attestata certezza ormai dichiarata.
Uno iato di carne e sangue è sufficiente affinché questi ingranaggi impongano al meccanismo di scrivere il prologo alla ferrea esistenza, mettendo le basi per quel domani tanto agognato, definito e nebuloso avvenire i cui intimi segreti saranno svelati man mano solo dal ticchettare preciso a cui fa riferimento, imposizione della sua (s)comoda presenza alla comunità: legami irresolubili si creano dal nulla, magia di un attimo rubato che, malgrado la penetrante cupidigia avvertita nel volerlo continuare a ripetizione costante, ininterrotto respiro di appena accennata libertà vera, necessitiamo di troncare sul nascere, aborto spontaneo di un’esistenza voluta eppure odiata, adorata avversione che combatte con sé stessa cercando di prevalere, confini labili che fondendosi diventano evanescenti, non rispettandosi più. Come un fiume in piena, la delusione e l’amarezza emergono indesiderate, compagne di giochi di una fame conoscitiva che, attraverso crampi poderosi allo stomaco, si estinguerà unicamente quando ogni tassello avrà trovato la sua corretta dislocazione, puzzle scomposto in attesa di un ordine dal caos, emozioni risolute che, con un’alta probabilità di riuscita, possono cambiare gli individui in maniera irreversibile, radicale debellamento di una vegetazione ormai desueta in favore di una selva oscura con gramigne fronde di zizzania entità, ribaltarsi di eventi che, rompendo, spezzano e, mutilando, annientano, bugie autentiche che riducono in cenere chi vi entra in contatto, distruggendo rapporti, ferendo affetti, uccidendo il nostro essere umani, mezze verità assumenti ruoli rilevanti alla conservazione nei confronti del mondo, routine di ogni giorno che fatichi ad annetterci come, infine, suo pari.
Più avviene l’inoltro nell’impervio paesaggio circostante, più comprendiamo lo sbaglio dell’esordio: oltre a realizzare che il tesoro accumulato non risponda, come all’epoca, alle domande irrisolte del nostro animo, bisogni ancora oggi esistenti che però non trovano l’esatto sostentamento, l’antico pregresso è sempre lì, dietro l’angolo in agguato, spettrale fantasma di quell’ieri che volevamo lasciarci alle spalle, ma che, imperterrito, si presenta, in tutta la sua cadaverica essenza, pure adesso, scompiglio a sorpresa che ci ricorda quanto persino il futuro, con le sue fragranti novità, si accompagnerà col sentore di noi, aroma inconfondibile che rammenta, riporta alla luce, strazia.
Cambiare è ciò che ora rimane da fare.
Rimpiazzare personifica la nostra attuale intenzione.
Tuttavia, in questa precisa fatalità, le variabili aleatorie da dover considerare nell’assetto del problema generale sono veramente troppe e invertire la rotta può risultare assai impraticabile. L’istinto di sopravvivenza indirizza la nostra mente alle riflessioni del caso, focalizzandosi su quella famiglia da proteggere che non merita di essere frammentata in microscopici tasselli da mosaico, prigione malata a cui sentivamo di appartenere, rifugio degente dal quale desideravamo distanziarci, fuga rocambolesca senza voltarci lasciando alle proprie spalle l’appendice vitale che iniziava ad asfissiarci, claustrofobica gabbia che induce a scappare in fretta e furia, abbandonando il nostro universo domestico per entrare in un altro simile e opposto in cui riposarsi riprendendo fiato, una realtà dove dimenticare non è la parola chiave, un nuovo presente in cui ci rammenteremo degli sbagli commessi che abbiamo tentato di aggiustare con una vendicativa devozione nella giustizia ritrovata, errori madornali decretanti il nostro indiscutibile fallimento del prima, fondo di barile raschiato fino all’osso dal quale risalire era l’unica alternativa verso cui propendere a mani basse.
Rinunciare a tutto per salvarlo, manifestando quindi la serietà del sacro vincolo, è il paradosso dell’esistenza da noi preferita. Il tempo dei ripensamenti ormai è sepolto, ma si ha sempre una seconda possibilità se la si cerca, un nuovo inizio per partire da zero e ricucire quella trama dove l’ordito ha perso il punto, sistemando ciò che si può come si riesce, poiché, anche quando pensiamo di non avere un domani, esso è lì, ad attenderci, pronto con noi per l’ennesima alba che segue il tramonto, epilogo che nasconde un incipit, morte che dà vita.
Adottando uno stile seducente grazie al quale trapela l’abbondanza di ricche emozioni capaci di scaldare e gelare il cuore dei suoi lettori, in combinazione a una cronaca serrata di vicissitudini che stimola la durevole continuità nell’assimilare la storia di Anna, Dexter ed Eddie, Jennifer Egan coinvolge enormemente il suo pubblico, conducendolo a braccetto verso l’oblio perenne dell’ossessione più completa, coltello dalla parte del manico che colpisce l’avventuriero letterario senza pietà, invischiandolo in una rete ermetica dalla quale l’idea di uscirne indenni è assurda: ambientata in un’epoca storica dalla ineguagliabile e tangibile magia, la più recente opera dell’autrice statunitense si insinua sotto pelle, in punta di piedi, bisbiglio attutito che vira i riflettori solo sui personaggi di reale interesse, non gradendo quel resto lasciato sul bancone di un bar qualsiasi nell’America degli anni ’40, vaga scintilla che esplode, con l’incedere delle pagine voltate, in un immenso fuoco d’artificio, detonazione della sordina iniziale che culmina in un effetto stupefacente da togliere il fiato. Perché Manhattan Beach è così, un elisir di lunga vita che gli assetati viandanti delle sue pagine trangugiano senza ritegno, acqua d’inchiostro che insieme appaga e inaridisce: memorabile.
Scheda libro
Titolo: Manhattan Beach
Autrice: Jennifer Egan
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 510
Anno di pubblicazione: 2018
Genere: Narrativa contemporanea
Costo versione cartacea: 22.00 euro
Costo versione ebook: 9.99 euro
Link d’acquisto: Amazon (ebook), Amazon (cartaceo)
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